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Opinioni

Facebook dalle stelle alle stalle: la morale della storia

Passata l’euforia per il debutto di Facebook sul Nasdaq in America è partita la caccia ai colpevoli del “flop”. La lezione che si può trarre è sempre la stessa: mai investire in ciò che non si conosce come le proprie tasche.
A cura di Luca Spoldi
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Wall Street, euforia comparto tecnologico in attesa Ipo Facebook

Facebook, felici e scontenti. La più grande Ipo della storia dopo quella di Visa in termini di valore, ma assolutamente la più seguita dai tempi di Google dal circo mediatico mondiale, si è già sgonfiata, anzi di più: è esplosa in faccia ai suoi stessi ideatori trasformandosi da un preannunciato (da molti) boom a un messo in conto (da pochissimi) flop nel giro di 48 ore, ossia dalla chiusura di venerdì sera (a 38,26 dollari, appena sopra la soglia critica dei 28 dollari del prezzo di collocamento, dopo aver toccato nella seduta un massimo di 41,72 dollari) a quella di lunedì (a 34,01 dollari) e all’ulteriore calo di ieri (a 31,02 dollari) solo in minima parte recuperato oggi mentre scriviamo (col titolo che oscilla a 31,62 dollari). Certo, i soci fondatori (tra cui molti “volti noti” come Mark Pincus, Li Ka-Shing o Bono Vox: se volete osservarli tutti in faccia guardate qui) e soprattutto Mark Zuckerberg non hanno comunque di che preoccuparsi. Zuckerberg in particolare a poco più di 28 anni ha ricavato 1,15 miliardi di dollari cedendo 30,2 milioni di azioni nell’Ipo e i titoli che ancora possiede (503,6 milioni di azioni tra quelle già possedute e quelle che gli deriveranno negli anni dall’esercizio di stock option) anche a 30 dollari l’uno varrebbero oltre 15,1 miliardi, meno dei 19,13 miliardi di valore teorico al momento del debutto in borsa ma abbastanza per non aver più problemi per il resto della vita sua e di varie generazioni di eredi. Come pure dormono sereni i miliardari russi Alisher Usmanov e Yuri Milner, soci rispettivamente all’80% e al 12,5% in DST Global, holding d’investimento presente anche nel capitale di Zynga, Groupon e Twitter che nel 2009 pagò 200 milioni di dollari 85,6 milioni di azioni, quando Facebook era valutato “solo” 10 miliardi e che con l’Ipo ha collocato 45,7 milioni di azioni portando a casa una plusvalenza di oltre 35,66 dollari per azione (ossia quasi 1,63 miliardi di dollari di guadagno netto in meno di tre anni) e che potrà liquidare nei prossimi mesi i restanti 39,9 milioni di titoli (a 30 dollari l’uno varrebbero circa altri 1,2 miliardi di dollari, a 38 dollari l’uno ne varrebbero oltre 1,5). Ben diversa la situazione di quegli investitori che hanno deciso di partecipare all’ipo nella veste di acquirenti, come quel gestore americano di fondi hedge che ha scommesso “oltre 100 milioni di dollari” ed ora è “particolarmente arrabbiato”, come eufemisticamente racconta Business Insider in uno dei pezzi più “coloriti” tra le decine uscite in queste ore sui media di tutto il mondo, per come il tutto è stato gestito, anche dal Nasdaaq, che nonostante avesse già capito che il sistema di scambi era collassato per il numero colossale di ordini sul titolo ha deciso di non rinviare il debutto, lasciando centinaia di investitori privi delle conferme che i loro ordini fossero stati o meno effettivamente eseguiti. E siccome spesso al male segue il peggio, lunedì le cose si sono ulteriormente complicate quando il Nasdaq ha chiesto ai trader che ritenevano (ma non erano ancora sicuri) di aver venduto azioni Facebook venerdì scorso di indicare prima dell’apertura a che prezzi pensavano di aver venduto e quanti titoli ritenevano di avere ancora da vendere e a che prezzi. Fatto che ha finito col far compilare autentici ordini di vendita “al meglio” (ovvero al peggio: al prezzo corrente del mercato, senza particolari limiti di prezzo), provocando il “tonfo” delle quotazioni.

Analisti superstar, banchieri nella polvere. Ma se i problemi dell’Ipo di Facebook fossero riconducibili solo a un cattivo funzionamento della piattaforma di trading del Nasdaq o delle procedure interne in materia di eseguiti per quanto grave fosse l’episodio potrebbe rapidamente trasformarsi in un aneddoto. Così non sembra destinato a divenire visto che nel frattempo si è scoperto che a fronte di uno sparuto numero di analisti che da qualche giorno avevano pubblicamente espresso dubbi sulle prospettive dei conti dopo la trimestrale (diffusa il 24 aprile scorso) e tagliato di conseguenza le stime, anche gli esperti di Morgan Stanley, “lead-underwriter” (ossia il capofila del pool di 33 banche d’investimento, tra cui figuravano anche Jp Morgan Chase e Goldman Sachs) dello sbarco di Facebook sul Nasdaq, stavano facendo qualche telefonata “particolare”. Sfruttando una legge guarda caso varata un mese fa, la “Jumpstart Our Business Startups Act” (ha ridotto ulteriormente i vincoli, un tempo rigidi, per gli analisti che lavorano presso intermediari coinvolti in un collocamento azionario), gli analisti e i trader di Morgan Stanley avrebbe contattato un ristretto numero di grandi investitori avvisandoli che “Faccialibro” rischiava di registrare alla fine del trimestre in corso utili (già calati del 12% annuo a 205 milioni di dollari nei primi tre mesi del 2012) inferiori anche di un 5% rispetto alle stime della banca d’affari.  Apriti cielo: se la notizia fosse confermata e la Sec (che sta iniziando a indagare) trovasse le prove che a quel punto i migliori e più grandi clienti di Morgan Stanley hanno tagliato gli ordini, mentre altri investitori (come lo sfortunato gestore citato da Business Insider) non informati, avrebbero confermato le proprie richieste iniziali e i piccoli investitori individuali (che a Wall Street sono considerati alla stregua di un “parco buoi” proprio come alle borse di Milano o Londra o Parigi o Francoforte) facevano quasi a pugni pur di farsi assegnare qualche titolo, ignari di quanto stava accadendo, sarebbe un bel casino perché sarebbe la conferma che non solo a Wall Street l’unica cosa che conta è il denaro e non i buoni sentimenti (scommetto che lo avevate sempre sospettato anche voi, come me), ma che per fare più denaro non ci sono regole e “fair play” che tengano, tanto che si parla già di class action contro Facebook da parte degli investitori “truffati”.

Il dubbio è lecito. Se poi aggiungete che Goldam Sachs, che lo scorso anno investì 450 milioni di dollari dei propri fondi sulla base di una valutazione di 50 miliardi ottenendo quasi 66 milioni di azioni, ha venduto  28,7 milioni di pezzi  ad una valutazione doppia guadagnando dall’Ipo circa 895 milioni di dollari (mantenendo una partecipazione valutata oltre un miliardo ai prezzi correnti), il “segnale negativo” che le grandi banche d’affari di Wall Street hanno mandato è netto. Non solo e non tanto nei confronti di una società che sta comunque cambiando radicalmente pelle e dunque si è collocata sulla base di numeri “sottostanti” (ad esempio in termini di fonti dei ricavi) che appartengono a un passato prossimo ma già distante e che rischiano di non aver alcuna aderenza col suo futuro (sempre più indirizzato verso il web “mobile” e non verso il web “desktop” come finora, con tutti i dubbi e i rischi che ha ampiamente documentato un’analisi di Rosario Di Girolamo, social media researcher per Telecom Italia), quanto sul loro stesso ruolo di intermediari al di sopra di ogni sospetto. Così a distanza di pochi giorni un investitore “vecchio stile” come Warren Buffet, che ha pubblicamente dichiarato di non voler puntare neppure un dollaro sulla creatura di Zuckerberg dato che non è in grado di capirne il modello di business (ma è certamente in grado di capire il business model degli “squali” di Wall Street) rischia di aver avuto ancora volta ragione. Buffet è ultraottantenne, ma da cinquant’anni ha avuto fiuto a sufficienza per sopravvivere su mercati finanziari alquanto agitati e incerti: la lezione che tutti dovrebbero trarne è che non si dovrebbe investire in ciò che non si conosce più che bene (aziende e intermediari e relativi modi di ottenere il rispettivo guadagno). Se poi vi sentite novelli Gordon Gekko e siete pronti a scommettere che a prezzi ormai sensibilmente ridotti rispetto a quelli dell’Ipo (ma che potrebbero calare ancora) Facebook possa a medio-lungo termine rivelarsi un ottimo affare, sappiate che ormai anche dall’Italia è possibile investire in “Faccialibro”. Nel caso potrete farlo indirettamente, acquistando il Benchmark Certificate sull’indice Sonix (composto da  11 società attive nel settore dei social network e nel quale è appena stato inserito, con un peso del 20%, proprio il titolo Facebook accanto a nomi quali LinkedIn, Meetic o Xing), o sfruttando il mini future che tra qualche giorno sarà emesso sul titolo da RBS (sia in versione “long”, ossia per acquistare a termine l’azione, sia nella versione “short”, ossia per venderlo a termine) oppure ancora utilizzando servizi di trading online di operatori e banche italiane che consentono di operare anche sul Nasdaq (come dovrebbe essere nel caso di Directa Sim). In tutti i casi in bocca al lupo e tenete a mente la storia che vi ho appena raccontato e la sua morale.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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