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La Commissione Europea attacca le pratiche di Facebook in materia di privacy

La Commissione Europea chiede maggiore trasparenza e maniacale attenzione su come vengono raccolti ed elaborati i dati personali degli utenti da parte dei colossi del mondo dei social media; e promette, entro il mese di gennaio, un pacchetto di norme tese a garantire il diritto alla privacy degli europei. Facebook & Co. saranno costretti a indicare scopi e modalità della raccolta di informazioni sensibili.
A cura di Anna Coluccino
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C'erano una volta un giovane ventiquattrenne, Max Schrems e la sua solitaria battaglia contro il colosso di Palo Alto: l'invincibile Facebook, il quale, in barba a moltissime contestazioni, praticava numerose azioni che per una parte dell'opinione pubblica si collocavano al limite della legalità e continuava a vivere e prolificare incurante di chi abbaiava alla luna senza alcuna speranza di scalfire d'una sola tacca la sua lucente armatura.

C'era una volta… Per l'appunto, perché dal 26 novembre scorso c'è qualcosa di diverso. La Commissione Europea sta seriamente valutando l'idea di esprimersi contro il modo in cui Facebook raccoglie informazioni sulle opinioni politiche, la sessualità e le convinzioni religiose dei suoi utenti, nonché sul rifiuto di consegnare all'utente -ove mai ne facesse richiesta- le informazioni riguardanti i like e le altre forme di interazione calcolate da Edge Rank che possono essere ricondotte all'attività dell'utente stesso sulla piattaforma.

A questo punto, a poco servono i cori di indignazione di chi sostiene che Facebook nasce a scopi commerciali, che l'attività di lucro sulle informazioni rilasciate è lecita e che se a qualcuno non piace quel qualcuno può anche evitare di creare un account sul social network, o magari limitare il livello delle interazioni.

Paradossalmente, questo genere di osservazioni è di gran lunga più irrispettoso dell'importanza di Facebook, rispetto alle annotazioni che si limitano a  contestare alcune delle pratiche del social network senza demonizzarlo tout court.

Dire che nel 2011 non utilizzare Facebook è un'opzione percorribile, specie per chi entra nel mondo del lavoro oggi, è una sciocchezza. Certo, si può scegliere di restare fuori dal mondo, ma per un giovane questa scelta -oggi- assume connotazioni pesantissime e potrebbe condizionarne le occasioni lavorative. I lavori "digitali" si moltiplicano a vista d'occhio, l'invasione della Rete all'interno del mondo del lavoro non digitale diventa si fa prepotente; ignorare il funzionamento di uno strumento che raccoglie quasi un miliardo di persone sulla superficie terrestre significa vivere una condizione di semi-analfabetismo.

Ecco perché, a mio avviso, l'affermazione secondo cui sarebbe "inutile contestare Facebook in merito alle violazioni della privacy perché se ne può fare a meno" è, come minimo , un po' superficialotta.

In secondo luogo, nessuno crede che Mark Zuckerberg debba accontentarsi di aver creato Facebook per opera caritatis, ma esistono metodi etici e metodi anti-etici di fare impresa, di fare business, di fare profitto. Che Facebook nasca per creare profitto mi pare evidente, che per farlo debba violare impunemente le normative europee (come sembrano suggerire le dichiarazioni della commissione) o come minimo ledere libertà personali è tutt'altra storia.

Sulla possibilità di "limitare il livello di interazione e la pubblicizzazione di informazioni" all'interno del social network si pone una questione di principio. Un piccolo esempio potrebbe essere utile a chiarire il punto.

Mettiamo che un'impresa costruisca un oggetto, diciamo un climatizzatore, che offre dieci differenti funzioni. Se si decide di comprare l'oggetto in questione, accettando il fatto che l'acquisto abbia un "costo" (nel caso di Facebook il costo consiste nell'essere continuamente oggetto di messaggi pubblicitari), lo si fa anche perché l'impresa assicura una vasta gamma di funzioni che può essere utilizzata in sicurezza e senza eccezioni. Nessun impresa potrebbe mai vendere un prodotto dicendo: attenzione, se si attiva la funziona numero dieci non garantiamo l'incolumità dell'utente o il rispetto delle sue libertà personali. Se ci si limita alle funzioni uno, due e tre non ci saranno problemi.

Insomma, se alcune funzioni di Facebook celano trabocchetti, percorsi poco limpidi di gestione e tutela della privacy e implicano la possibilità di incorrere in un rischio, o determinano l'insorgere di nuovi "costi", non vi pare esista un problema etico?  

Evidentemente, lo crede anche la Commissione Europea, tanto che ha già espresso l'intenzione di diramare, entro le prime settimane del nuovo anno, norme capaci di tutelare ancor più esplicitamente il diritto alla privacy dei cittadini europei; norme che siano in grado di porre un freno alla selvaggia incetta di dati personali che molti colossi del web (non solo Facebook) stanno praticando infilandosi tra le pieghe di un sistema legislativo lacunoso e poco chiaro, affatto adeguato ai nuovi sistemi di comunicazione.

In questo senso, Facebook è uno dei principale obiettivi del pacchetto normativo. Pare infatti che la Commissione Europea annoveri il colosso di Paolo Alto tra i responsabili della mala gestione delle informazioni sensibili degli iscritti. Una mala gestione che va attaccata prima che faccia scuola, prima che l'eccezione si trasformi in regola e il confine tra lecito e illecito trovi legittimazione giuridica nella pratica consolidata. Il focus della normativa che la commissione sta valutando, in particolare, risiede nella tutela delle informazioni che riguardano il credo politico, l'orientamento sessuale, il credo religioso, le informazioni sullo stato di salute o la posizione geografica. Stando alle prime dichiarazioni del portavoce della commissione, Viviene Reding, Facebook potrebbe essere interdetta dalla possibilità di condividere queste ed altre informazioni con gli inserzionisti pubblicitari, previo esplicito consenso da parte degli utenti.

La Rending, vicepresidente della Commissione Europea, in un'intervista al quotidiano britannico The Telegraph afferma: "Ho chiesto ai principali portali -in particolar quelli riguardanti il mondo dei social media- di essere più trasparenti rispetto al mondo in cui operano. Gli utenti devono sapere quali dati vengono raccolti e poi elaborati, come e -soprattutto- a quale scopo. I consumatori europei dovrebbero poter contare sul fatto che le informazioni sensibili che li riguardano vengono severamente protette, indipendentemente dalla nazione europea a cui gli utenti appartengono e indipendentemente dal paese in cui sono legalmente allocate le compagnie che elaborano i loro dati personali".

La replica di Facebook non si è fatta attendere e si esprime per bocca di un portavoce nei termini che seguono: "Comprendiamo che le persone condividono molte informazioni attraverso Facebook e prendiamo molto seriamente questo aspetto. Crediamo però fermamente nel fatto che se le pubblicità sono appropriate, sociali e personalizzate in base agli interessi dell'utente sono decisamente migliori. Possiamo mostrare pubblicità rilevanti rispettando la privacy delle persone, perché il nostro sistema fornisce soltanto informazioni anonime agli inserzionisti e aggrega informazioni con l'unico scopo di offrire pubblicità targettizzata. Non condividiamo i nomi delle persone con nessun inserzionista senza l'esplicito consenso dell'utente, e non vendiamo mai informazioni personali e terze parti. Non c'è alcuna connessione tra il tipo di privacy che le persone scelgono di implementare e le nostre pubblicità. Che si scelga o meno un settaggio della privacy che intenda mantenere il profilo molto pubblico o molto privato, tutti vedono il medesimo ammontare di pubblicità sul lato destro della loro pagina. Le pubblicità sono personalizzate rispetto all'utente, ma non teniamo traccia del comportamento delle persone per servire gli inserzionisti".

Insomma: a parole, entrambe le parti in causa sembrano volere la stessa cosa. Eppure, se la commissione si allerta dev'esserci qualcosa che non va o, come minimo, qualche passaggio poco chiaro. Appare infatti un po' ridicolo assistere a dichiarazioni che nella sostanza potrebbero riassumersi in: "vogliamo emanare un pacchetto normativo perché Facebook protegga i dati sensibili degli utenti" e "proteggiamo i dati sensibili degli utenti".

Di cosa stiamo parlando, dunque?

Il dato di partenza è che Facebook è già stato oggetto di moltissime contestazioni in tal senso e di frequenti attacchi da parte di associazioni, utenti singoli, politici… Ora, volendo assumere per buona l'ipotesi che il social network sia innocente e che i dati forniti agli inserzionisti siano sempre caratterizzati dall'anonimato, e che in nessun caso le informazioni riservate degli utenti sono sottoposte a rischio, occorre cominciare a domandarsi se il re della comunicazione post moderna non stia perpetrando un gigantesco errore di comunicazione, o -semplicemente- non stia ponendo la dovuta attenzione a un problema che, per molti, rappresenta ancora un nodo importante nel novero delle libertà personali.

Update ore 16:00  – Il comunicato stampa di Facebook 

A pochi giorni dalla presa di posizione da parte della Commissione Europea, Mark Zuckerberg interviene via Facebook con un comunicato che si risponde esplicitamente alle preoccupazioni sollevate dall'Europa, pur senza nominarle.

Zuckerberg si rivolge direttamente agli utenti, bypassando l'istituzione, nel tentativo di dimostrare che qualunque modifica alla privacy sarà mirata non tanto ad accontentare organi politici o giudiziari di vario livello, ma a migliorare l'esperienza degli utenti, tutelandoli il più possibile.

Strategicamente, il comunicato rilasciato da Facebook è perfetto.

Segnala come unico interesse dell'azienda quello di rendere soddisfatti gli utenti, ammette di aver commesso diversi errore, chiede il riconoscimento dei molti passi avanti fatti in materia di privacy e si impegna a fare ancora meglio.

Come?

Intanto afferma istituendo due nuove nuove cariche in materia di privacy: Erin Egan diventerà, infatti, il prossimo Chief Privacy Officer relativamente ai procedimenti, mentre Michael Richter sarà il prossimo Chief Privacy Officer relativamente ai prodotti. "Le due posizioni" – si afferma nel comunicato – "offriranno maggiore forza a quei processi che assicurano che il controllo sulla privacy venga implementato tanto nei prodotti quanto nei procedimenti".

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