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La Silicon Valley parla anche italiano, successo tricolore in dieci storie, ma all’Italia chi ci pensa?

L’inchiesta di Repubblica sugli italiani in Silicon Valley pone all’attenzione del Bel Paese l’annosa questione della “fuga dei cervelli”: giovani talentuosi che decidono di emigrare e mettere le loro intelligenze al servizio di una nazione capace di valorizzarle. Ma davvero l’unica speranza per gli innovatori italiani è il sogno americano?
A cura di Anna Coluccino
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silicon valley italiani

Tante volte mi sono pronunciata sul mito della Silicon Valley, raccontando di quanto (spesso sebbene non sempre) l'idea che l'altrove sia migliore del qui si riveli un comodo nascondiglio per tutto coloro che preferiscono godere di un terreno reso già fertile da operosi pionieri piuttosto che impegnarsi nel recupero di un terreno aspro e duro, diventando pionieri a propria volta. Ma è pur vero che non si può chiedere a tutti i giovani di talento di profondere intelligenza e volontà in uno sforzo di creazione che -comunque- rappresenta un rischio, il cui costo potrebbe essere altissimo: il fallimento del sogno, la frustrazione del non aver espresso a pieno le proprie potenzialità.

Si tratta -in sostanza- dell'eterna lotta tra il diritto all'affermazione individuale e il bisogno di dedicare la propria esistenza alla realizzazione di un progetto che produca benessere collettivo lì dove manca.

Non si tratta di una scelta facile, né tanto meno scontata. Nessuna delle due opzioni può essere considerata, in assoluto, migliore dell'altra, così com'è vero che le due cose non necessariamente si escludono a vicenda. Si può, ad esempio, andar via, imparare, farsi un nome e poi tornare per creare qualcosa che sia capace di ridare valore a una terra che non merita di essere lasciata nelle mani di una gerontocrazia miope ed egoista.

Ed è quello che, personalmente, mi auguro scelgano di fare alcuni dei cervelli migranti di cui racconta l'ottima inchiesta di Repubblica avente come oggetto, per l'appunto, il successo italiano in Silicon Valley.

Le storie raccolte da Repubblica costituiscono sì il racconto a più voci di un successo che può essere considerare italiano (e quindi nostro) ma, è bene chiarirselo, è anche l'illustrazione di un dramma vivo e pulsante, forse uno dei peggiori del nostro paese. Il fatto che ci siano persone capaci di dar lustro all'ingegno nostrano ci rende di sicuro orgogliosi, ma dovrebbe -più di tutto- generare un moto di rabbia: se la meglio gioventù italiana espatria, a cosa è destinata l'Italia? In che modo potrà mai sperare di uscire dal medioevo tecnologico e culturale che l'attanaglia?

Prima d'ogni altra considerazione, è questo l'assunto che dovrebbe guidare l'analisi: i talenti devono poter scegliere se andare o restare, devono essere messo in condizione di godere dell'opportunità di imporsi anche in Italia. L'idea del nemo profeta in patria non può in alcun modo continuare a proliferare nella mente delle giovani generazioni, altrimenti questo paese sarà condannato a morte certa.

È vero che, per un innovatore, l'idea di calcare il medesimo palcoscenico che ha visto fiorire Apple, Google e Facebook è come un canto sirenico, un irresistibile richiamo, ed è impensabile eliminare alla radice questa fascinazione. Così come la Firenze del ‘500 e la Napoli del ‘700 richiamavano poeti, artisti e intellettuali a frotte, non c'è nessun dramma nel fatto che la Silicon Valley rappresenti per molti un passaggio semi-obbligato di formazione, ma non dovrebbe finire lì, non per tutti almeno.

Eppure la verità è che tornare in questa Italia dopo che si è saggiata la funzionalità della vita e del lavoro oltreoceano, non è facile. Una volta si sarebbe potuto dire che l'Italia tutela meglio i diritti dei lavoratori ma oggi non è più vero neppure quello, anzi: a parità di mancanza di certezze, il rapporto tra il compenso di un lavoratore high-profile e il costo della vita è decisamente più appetibile. Se poi si parte dalla prospettiva imprenditoriale e non da quella del lavoratore dipendente è difficilmente contestabile l'assunto secondo cui il rapporto impegno-soddisfazione è di gran lunga più favorevole negli States (e non solo…).

Per Anna Gatti, direttore strategico di Skype d'origine pavese, ad esempio, tornare in Italia non rappresenta un'ipotesi percorribile, non a tempo pieno almeno. Dopo aver studiato alla Stanford e aver lavorato per Google e Skype, proprio non se la sente di guardare al nostro paese come a un territorio appetibile dal punto di vista lavorativo: "mi piacerebbe aumentare la presenza nei board di aziende italiane"  afferma "per trasferire a loro l'esperienza che ho fatto qui. Ma lavorare a tempo pieno no".

Stesso discorso per Claudio Cherubino, trent'anni, catanese, sviluppatore per BigG assunto tramite il semplice invio di un curriculum, che dichiara: "Non riesco a vedere qualcosa di meglio di Google. L'idea di tornare in Italia non mi sfiora. Non vedo cosa potrei fare. La parte lavorativa non è minimamente paragonabile e in Sicilia è ancora peggio. Di sicuro non avrei come spendere le mie competenze guadagnate qui. Quando a Catania racconto cosa faccio, mi dicono: ‘Ah, ho capito: ripari computer'. Se le cose non cambiano, non credo proprio che tornerò in Italia. Dovrebbero proprio stravolgersi".

La storia si ripete anche nel caso di Andrea Siciliano, trentacinquenne vercellese, operations manager di Google, il quale ammette di sentire la mancanza della sua famiglia, ma non di una nazione così tanto incline a bollare il fallimento di un'impresa come la definitiva dimostrazione dell'incapacità di un imprenditore e non come il necessario processo di apprendimento che porta allo sviluppo di un'idea migliore, magari rivoluzionaria.

Stessa conclusione per Stefano Menti, trentun'anni, vicentino, business strategist a Mountain View. Il suo desiderio di non ritorno è irrevocabile e non negoziabile, nonostante la lontananza dagli affetti e dalla sua fidanzata. "Qui voglio rimanere, non ho la minima intenzione di tornare in Italia. Mi piace la California e in particolare la Silicon Valley: c'è un mix perfetto tra quello che puoi fare nella vita privata e nel lavoro". Stefano accusa i suoi connazionali di aspirare -in prevalenza- a diventare calciatori e veline, mentre la Silicon Valley pullula di giovani decisi a calcare le orme Steve Jobs. Ma non è tutto, sulla decisione del giovane vicentino pesa anche il diverso stile di vita che anima la valle più famosa del mondo:"Qui è il paradiso: oceano, montagne a due passi, e soprattutto la mentalità delle persone che è molto outdoor. E quindi: gite a piedi tra le montagne, grandi sciate, scampagnate con gli amici".

In sostanza, la netta maggioranza degli intervistati si esprime quasi in coro: indietro non si torna. L'Italia è vecchia, ferma agli anni '90, miope, ignorante, affatto meritocratica. Anche i più maturi tra gli intervistati non hanno dubbi in merito. A partire da Nino Muscettola (cinquantatreenne milanese, lavoratore del settore search quality video di Google) passando per Mario Callegaro (quarantaduenne veronese,  laureato in sociologia, anch'egli in forze a BigG) e Luigi Semenzato (cinquantatreenne padovano, ingegnere di Google) finendo con Marco Massenzio (quarantacinquenne romano, ingegnere di Snaplogic) la musica è sempre la stessa: il Bel Paese è inappetibile per ha fatto dell'innovazione una propria scelta di vita.

Solo due le voci fuori dal coro. Si tratta di Marco Paglia, trentunenne ravennate, software designer per Android, che afferma, seppur nell'indecisione, che la Silicon Valley non è casa sua: "sei in America, non è roba tua, non stai facendo un prodotto che fa parte delle tue radici. Voglio dire: a un certo punto è come se ti sentissi comunque un ospite. Come me anche i colleghi che vengono dalle parti più disparate del mondo. Il desiderio di tornare in Italia c'è, ce l'abbiamo tutti dentro e significa aver voglia di fare quello che ci piace a casa nostra"; e Taddeo Zacchini, ventinovenne bolognese, user interface designer per Android che, come Marco, sente un legame molto forte con l'Italia, nonostante le sue evidentissime e pesanti tare. Infatti dichiara: "Io voglio scendere a compromessi, sono arrivato a un punto della mia vita in cui mi sono divertito, ho fatto un sacco di esperienza, sono andato in giro per il mondo. Ho già dato, sarei contento in qualche anno di tornare a casa. Il sogno è lavorare dall'Italia. Combinare il business migliore del mondo e le cose più belle che mi mancano del mio Paese".

Sinceramente, pur stimando immensamente le grandi intelligenze di coloro che hanno trovato realizzazione negli USA e che hanno comprensibilmente deciso di tagliare i ponti con una nazione che non ha saputo tenerli legati a sé, non li ha valorizzati né ha dato loro l'importanza che avrebbero meritato, ci auguriamo che qualcuno di questi giovani torni, anche a costo di assumersi un rischio; ci auguriamo che non muoia in tutti il bisogno di seminare lì dove è più difficile che qualcosa frutti.

In fondo, quale più grande soddisfazione esiste del far germogliare una foresta nel deserto?

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