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Twitter, report (e battaglie) sulla trasparenza

La piattaforma di microblogging rende note le richieste dei governi relative ai dati degli utenti. Intanto un giudice americano obbliga il social network a consegnargli i tweet di un manifestante di Occupy: “sono dati pubblici”.
A cura di Angelo Marra
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Social network, governi e utenti, un mènage à trois che stenta a trovare un suo equilibrio, con le piattaforme schiacciate da una parte dalle richieste – leggasi ordini – da parte delle autorità sui dati di alcuni utenti “scomodi” e gli user pronti a scendere sul piede di guerra di fronte alle violazioni della libertà di espressione. L'ultimo caso riguarda Malcolm Harris, un attivista di Occupy Wall Street i cui tweet sono diventati di interesse dei giudici dopo una denuncia a carico del giovane in occasione delle manifestazioni degli scorsi mesi. I togati hanno fatto richiesta a Twitter di avere accesso ai dati di Harris e ai suoi post sulla piattaforma di microblogging, adducendo come motivazione il fatto che, per connotazione del social network, le informazioni in esso contenute sono pubbliche, pertanto non si prefigura un'invasione della privacy del tweeter.

Qualche settimana fa il sito dell'uccellino è finito nell'occhio del ciclone, insieme a Google, a causa della sua collaborazione più o meno volontaria con le autorità in tutto il mondo nel contribuire nelle indagini e fornire le informazioni relative ai propri utenti. Un vero e proprio passo falso, secondo gli internauti, che dimostra un atteggiamento troppo compiacente da parte dei big dell'informatica verso le istituzioni a danno della libertà di espressione degli utenti. Non si tratta infatti di un caso isolato; dopo Google è lo stesso Twitter a rendere note le numerosissime richieste di dati sugli iscritti pervenute alla piattaforma, che nella sola metà del 2012 hanno già superato quelle di tutto lo scorso anno. Naturalmente il fenomeno si è mostrato più palesemente negli USA, area dove Twitter riscuote maggiore successo, ma anche l'Italia è stata coinvolta in questo tipo di pratica, anche se la piattaforma di microblogging per questioni di riservatezza si limita a definire il numero di richieste “inferiore a 10”, senza quindi entrare nel dettaglio – a suo dire – per non interferire con eventuali procedimenti.

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Più ridotte invece le richieste di rimozione di eventuali contenuti ritenuti sgraditi. Secondo i dati forniti dalla piattaforma le richieste sono state pochissime e la percentuale dei tweet rimossi è dello 0%. Va considerato però che nel conteggio sono escluse le cancellazioni derivanti dalla violazione delle condizioni di utilizzo del social network, le richieste pervenute via mail e quelle legate alla violazione del diritto d'autore.

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Per quello che riguarda i copyright infatti, Twitter ha realizzato una tabella a parte e in questo caso i valori sono di gran lunga più cospicui. Il totale delle richieste nei primi mesi del 2012 è stato di 3378 e hanno coinvolto 5874 utenti. In questo caso l'intervento della piattaforma è stato molto più energico, con il 38% delle richieste accolte e la rimozione di 5275 tweet e 599 media. Come chiarito dal social network, la cifra non tiene conto di tutte le richieste incomplete o pervenute in modo errato, il che fa supporre che la cifra reale delle richieste di rimozione sia molto più alta.

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È utile comunque osservare come, a fronte di una crescita dell'utilizzo di Twitter, aumenti parallelamente anche il numero di richieste di informazioni sugli utenti e di rimozione di contenuti precisi. La disponibilità delle piattaforme a venire incontro alle richieste delle autorità va inquadrata nell'atteggiamento generale che i big della tecnologia hanno nei confronti dei vari governi (anche quando questi non eccellono per quello che riguarda libertà e diritti); in palio c'è l'accesso (o il veto) ai mercati e la “lezione cinese” ha dimostrato come un gigante come quello asiatico sia in grado ad esempio di arrestare la corsa di trend mondiali come Google e Facebook con relativa facilità. D'altra parte va considerato però che lo straordinario successo delle piattaforme social è ascrivibile in parte anche alla connotazione democratica e libertaria che, almeno in teoria, dovrebbe contraddistinguerle e che le ha portate ad avere un ruolo di una certa rilevanza in molti casi di sollevazioni e manifestazioni come è accaduto per la Primavera Araba. Come possono convivere queste due tendenze? Gli utenti di Twitter, ad esempio, sarebbero davvero disposti ad abbandonare la loro amata piattaforma se questa, magari in maniera graduale e meno improvvisa, declinasse il proprio atteggiamento verso un appiattimento sui voleri delle autorità? E le piattaforme social rischierebbe di inimicarsi la base, gli utenti, che nel concreto ne sono la vera e propria essenza? In realtà l'esperienza seppur breve dei social network ha dimostrato come piccole e costanti riduzioni delle libertà degli utenti sia internamente alla piattaforma (come la farsa del referendum sulla PP di Facebook), sia riguardo la legge dello Stato, siano state accolte da malumori e proteste degli utenti, a cui però non è seguita quell'emorragia di rimando che ci si aspetterebbe da un luogo che ha fatto della “libertà” il proprio cavallo di battaglia. Come è accaduto e accade nel rapporto tra la società e i governi che lentamente convergono verso politiche più autoritarie, ci si accorge delle restrizioni solo guardandosi indietro e paragonando la condizione attuale con una precedente. Nella quotidianità invece l'impatto si diluisce nell'abitudinarietà e nell'egoistica routine che rende irrinunciabile il tweet o il post. Anche se a perderci è sempre la libertà.

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