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Facebook ha concesso per anni a 150 aziende l’accesso ai dati di milioni di utenti

L’ultimo reportage del New York Times colpisce ancora una volta Facebook sul tema della privacy. La società avrebbe stretto negli anni accordi con numerose aziende per essere presente sui loro diposisitivi e servizi in cambio dei dati dei propri utenti, il tutto senza avvisare questi ultimi in modo adeguato.
A cura di Lorenzo Longhitano
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La tempesta a tema privacy che Facebook si è creata attorno a sé sembra non avere più fine. In queste ore il New York Times ha pubblicato un reportage nel quale — descrivendo documenti interni all'azienda e le testimonianze di 50 ex dipendenti del gruppo di Menlo Park — accusa la società di aver concesso a 150 aziende esterne un accesso privilegiato ai dati dei suoi utenti, andando ben al di là di quanto veniva dichiarato a questi ultimi. Il New York Times parla di accordi di collaborazione nati anni fa ma che in alcuni casi sono rimasti validi fino all'anno scorso, e che a Facebook sono serviti per consolidare la propria presenza sui dispositivi, sui siti e accanto ai servizi delle aziende partner nell'ultimo decennio.

Secondo il New York Times, Apple ha potuto ad esempio sbirciare tra i contatti di Facebook e gli eventi in calendario degli utenti anche quando questi avevano scelto di non condividere le informazioni con l'app di Cupertino; Amazon e Microsoft hanno avuto a disposizione i nomi e le informazioni di contatto degli amici degli utenti che collegavano a Facebook i loro servizi; Spotify, Netflix e la Royal Bank of Canada potevano perfino leggere i messaggi privati degli utenti che legavano i loro account sui tre siti a quello sul social network. Ciascuna delle aziende citate direttamente ha invece già risposto di non essere stata al corrente di avere avuto questo tipo di accesso (Apple), di aver utilizzato i dati in modo appropriato (Amazon), di aver già eliminato le informazioni in questione (Microsoft), oppure di non aver mai richiesto alcun tipo di accesso ai privilegi descritti (Netflix) o di non averli mai sfruttati (Spotify e Royal Bank of Canada).

Facebook dal canto suo ha descritto gli accordi citati come funzionali a una migliore esperienza d'uso della piattaforma. Alcune partnership ad esempio sono servite, nei primi anni di vita del sito, a integrare la messaggistica e altre caratteristiche di Facebook a bordo di dispositivi come i Windows Phone, i primi iPhone e i gadget BlackBerry; altre hanno permesso di visualizzare i consigli degli amici in fatto di musica e serie tv. In ogni caso — ha specificato la società — ciascuna di queste integrazioni richiedeva agli utenti di effettuare l'accesso partendo dai relativi siti o dai dispositivi che finivano con l'essere collegati a Facebook.

Sul fatto che gli utenti fossero adeguatamente informati del livello di accesso concesso da Facebook ai produttori di telefoni o alle società partner del social ci sarà da dibattere. D'altro canto però è innegabile che gli accordi denunciati dal New York Times non siano serviti solamente a migliorare la piattaforma per i propri utenti, anzi: in un'epoca in cui Facebook non era ancora onnipresente come oggi, per l'azienda è stato fondamentale far trovare i suoi servizi comodamente raggiungibili sui siti, sui telefoni e sui portali di tutte le aziende più in voga di quegli anni; il prezzo da pagare per raggiungere questo obbiettivo e crescere così velocemente potrebbero essere stati proprio i dati dei suoi utenti.

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