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Usano i dati dello smartphone per costringere il prete a dimettersi: frequentava app e locali gay

Una testata ha ottenuto dati anonimi messi a disposizione da Grindr fino al 2020 ai suoi partner commerciali, ma il comportamento dell’app di incontri – interrotto nel 2020 – è comune a numerosi social network e siti web che in questo modo danno vita a banche dati che soggetti specializzati possono unire tra loro per risalire alle identità degli utenti.
A cura di Lorenzo Longhitano
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Il fatto che gli smartphone ormai sappiano tutto dei propri utenti è stato ormai accettato in modo passivo dalla maggior parte delle persone, ma questo fenomeno può portare a conseguenze di non poco conto. È quello che è accaduto al segretario generale della Conferenza Episcopale degli Stati Uniti, Monsignor Jeffrey Burrill, che si è dimesso dalla sua carica dopo essere stato accusato di utilizzare app per incontri dedicate alla comunità gay e di aver frequentato locali e bar alla ricerca di relazioni sessuali. Le accuse sono state formulate da una testata online che ha riferito di aver ottenuto prove schiaccianti fornite direttamente dallo smartphone del prelato; nella fattispecie si tratta di dati provenienti dall'app per incontri Grindr e con tutta probabilità completati con altre informazioni attraverso la pratica del data broking.

La banca dati di Grindr

La ricosruzione dei fatti l'ha fatta il Washington Post, ma la vicenda è nata da una inchiesta della testata cattolica The Pillar, che è riuscita a mettere le mani su una banca dati di informazioni legate agli utenti dell'app per incontri Grindr scovando al suo interno gli spostamenti e l'identità del prelato. La piattaforma in effetti colleziona numerosi dati dei suoi iscritti, dall'identificativo dello smartphone alla posizione GPS, passando per l'età e il genere; si tratta però di informazioni anonime, che non includono elementi dai quali si possa risalire direttamente all'identità degli utenti. Il problema è che fino al 2020 Grindr ha condiviso questo tesoretto di informazioni con i suoi partner commerciali, lasciando in questo modo che finisse tra le mani di soggetti specializzati in data broking, ovvero la raccolta e l'unione di banche dati provenienti da più piattaforme allo scopo di ottenere identikit completi di potenziali bersagli pubblicitari.

L'identità scovata

La pratica del data broking è nata in ambito commerciale per fornire agli inserzionisti pubblicitari un pubblico di potenziali clienti estremamente ben individuato: l'unione di più banche dati anonime può infatti portare a ottenere identikit molto precisi di ciascun utente social o frequentatore del web, fino però a poter arrivare alla sua identità completa. Non per niente il sistema è fortemente criticato ovunque, perché può mettere in pericolo la privacy delle persone esattamente come è successo con la banca dati sulla quale ha messo le mani The Pillar: l'archivio, unito a un numero non meglio precisato di altri faldoni digitali ottenuti in modo simile, ha permesso di mettere nome e cognome su utenti anonimi tra i quali è stato scovato anche Monsignor Jeffrey Burrill; da qui la testata è riuscita a ricavare anche gli spostamenti del soggetto – dal momento che l'app utilizza il GPS per ricercare i potenziali partner nelle vicinanze. Il tutto è stato dato in pasto all'opinione pubblica e ha portato in poche ore alle dimissioni del prelato.

I rischi per tutti

E se lo stile di vita adottato da Burrill può essere considerato censurabile all'interno della comunità religiosa che rappresenta, neppure un reato giustificherebbe un'operazione di spionaggio simile. Non per niente la vicenda sta facendo discutere negli Stati Uniti non tanto per le implicazioni che ha avuto all'interno della Conferenza Episcopale, quanto per la minaccia rappresentata dal data broking in relazione a quanta poca consapevolezza ci sia del fenomeno. Se le nostre informazioni online possono essere aggregate con tanta facilità e consultate da chiunque abbia sufficiente motivazione per farlo, nessuno può dirsi veramente al sicuro da occhi indiscreti.

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