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Facebook condannato per concorrenza sleale: lo sciame si ribella

La storia che ormai si ripete in migliaia di casi è quella di sempre: un monopolista cerca di orientare il mercato affiancando giovani challenger e poi appena questi crescono li stronca sul nascere.
A cura di Michele Mezza
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facebook blocco censura

L’alveare è impazzito. E il miele ne risentirà.

Il vecchio adagio degli apicultori ben si attaglia alla sentenza che ha condannato Facebook per concorrenza sleale rispetto ad un’azienda italiana produttrice di app. La storia che ormai si ripete in migliaia di casi è quella di sempre: un monopolista cerca di orientare il mercato affiancando giovani challenger e poi appena questi crescono li stronca sul nascere. Dettagliatamente si tratta della parabola che stanno vivendo da almeno un paio d’anni molte piccole e medie aziende che realizzano app nell’ambito di facebook. Il social concede le cosidette API (Application Programming Interface), sono le chiavi digitali che permettono di inserire nelle piattaforme online dispositivi e servizi compatibili e coerenti con i codici adottati per la piattaforma.

Le API aprono le porte del paradiso, ossia consentono a piccoli artigiani di poter proporre le proprie realizzazioni alla sterminata platea di utenti di Facebook. Ma poi l’incantesimo svanisce: se l’app incontra il gradimento del pubblico, comincia a diffondersi e produce contatti allora viene riprodotta e il titolare del progetto originale viene escluso dal social.

In questo modo si riduce l’offerta, Facebook cannibalizza il mercato, ma il vero danno è che rallenta l’innovazione. Fenomeno che da almeno 5 anni è registrabile e documentabile da centri di ricerca come il Boston Group. Ma si pone anche un altro problema: chi comanda sul mercato? Quali leggi regolano le dinamiche commerciali? Quelle del monopolistra che può dettare  legge a casa propria o quella del paese in cui il monopolista opera?

Questo è in realtà il quesito a cui ha dato una risposta il tribunale di Milano: la trasversalità della rete non sospende la sovranità nazionale. Un principio che è destinato sia a rassicurare la pletora di imprese che si trovano a dover lavorare su facebook, sia ad interferire su un altro piano rilevante: la gestione e diffusione di algoritmi. Si tratta di quella che oggi è la vera frontiera della rete: l’automatizzazione dei comportamenti e delle decisioni gestita da dispositivi matematici. È questa oggi la vera tendenza che vede Facebook, Google, Amazon, non solo erogare servizi ma orientare anime con sistemi che impongono linguaggi e modelli relazionali, dunque pensieri.

Non a caso la sentenza del tribunale di Milano viene resa pubblica e condivisa online proprio il giorno in cui Facebook comincia ad esercitare un potere di controllo e valutazione sull’informazione. In questi giorni infatti  sulla rete americana del social è apparso il primo timbro “disputed” (Contestato) su una notizia. Si trattava di una vera fake, non a caso rilanciata proprio dal Presidente americano Trump che ha accreditato il fatto che il suo predecessore Barack Obama lo spiasse. Facebook, raccogliendo il grido di dolore elevatosi in vari paesi, in Italia direttamente dal Presidente della Camera Boldrini, si è costituito come tutore della verità. Una situazione paradossale, che vede il trasportatore di notizie valutarne il merito. Senza che giornalisti o legislatori abbiano nulla da obbiettare. Fino alla prossima sentenza di un tribunale.

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