Francesco Sullo e Tara Kelly: “La chiave del successo? Fidarsi e condividere”
Cosa c'è di meglio per uno startapparo che provare a "rubare" il mestiere a chi è un passo avanti a lui (magari anche due o tre)? Ed è proprio sulla base di questo presupposto che abbiamo voluto intervistare Francesco Sullo e Tara Kelly -italiano lui, statunitense lei- scalpitanti imprenditori di stanza in Silicon Valley, padre e madre di Passpack.
Passpack è un archivio online che consente di stipare nella cloud le proprie credenziali di accesso ai servizi web. Tutte le informazioni vengono storate in formato cifrato, risultando accessibili solo ai possessori della stessa chiave da 1024 bit con cui sono state secretate.
Il progetto Passpack nasce in Italia, nel 2006, e subito comincia a crescere e raccogliere consensi. Nel 2008 ottiene un finanziamento da parte dell'italiana Zernike Meta Ventures S.p.A (ZMV) e, a novembre dello stesso anno, esce definitivamente dalla fase beta con il lancio delle prime offerte premium. Intorno alle metà del 2009, c'è il fondamentale rilascio di PassPack 7 con condivisione sicura, accompagnato da una serie di aggiornamenti per professionisti del web e imprese; alla fine del 2009 la ZMV rinnova la sua fiducia nella startup. Il 2010, invece, è caratterizzato sia dal continuo rilascio di servizi e aggiornamenti (tra cui spiccano il Bulk Password Sharing e il Group Management), sia dal trasferimento in California dell'azienda.
Come ogni progetto nato dal desiderio e dall'ostinazione dei suoi fondatori, Passpack è in continua e costante evoluzione, eppure non è sull'impresa in sé che abbiamo voluto centrare il focus di quest'intervista, quanto sulla scoperta di "chi sono" i suoi fondatori, quali sono le loro passioni, l'idea che si sono fatti del mondo in cui lavorano e del mondo in generale, cosa amano e perché, come considerano i rispettivi paesi di provenienza rispetto al generico (ma non per questo vago) concetto di imprenditorialità, quali sono i consigli che desiderano offrire alla nuova generazione di startuppari… Insomma: un'intervista a tutto tondo che ha inteso mettere a fuoco "l'idea di startup come forma d'arte" (come dice Francesco) o la necessità di proporre la propria idea non dimenticando mai che chi ascolta deve considerare "il tempo passato insieme a te (e al tuo servizio/prodotto/azienda) un momento di sollievo dall'ambaradan della vita normale" (come dice Tara).
A dirla tutta, volevamo una bella intervista. E l'abbiamo avuta.
Francesco – Spulciando in rete ho scoperto che ti interessi di cinema, musica e fotografia, insomma, si direbbe che hai l’anima dell’artista prima ancora che quella dell’imprenditore. Naturalmente, nessun imprenditore che si rispetti può essere privo di fantasia, gusto, interesse per il “bello”, ma mi sembra che le tue attività vadano ben oltre il semplice interesse. L’arte ti ha mai ispirato dal punto di vista imprenditoriale? C’è un film, un brano musicale, un dipinto o una fotografia che hanno acceso la tua lampadina da “startupparo”?
Ci si nutre di stimoli, continuamente. L’arte, in senso lato, ne offre tantissimi e ispira. Ma non credo ci sia stato un film o un quadro che in particolare mi abbiamo inspirato sul piano imprenditoriale. Credo che sia più che altro una raccolta di materiali che accumuli da qualche parte nella tua testa. Nel seguito, di tanto in tanto, ci rovisti dentro per ritrovare delle cose che ti avevano colpito. Aggiungerei che una startup è una forma d’arte. Se vai a confrontarla con un film, vedi che ogni startup ha un produttore (gli investitori) e un regista (il CEO), attori protagonisti (CTO) e non (team), comparse (consulenti), direttori della fotografia (UX/designer), osservatori (analitiche), ecc. Quello che ne viene fuori è uguale a un film seriale.
Francesco – Leggendo il tuo blog sono rimasta molto colpita da un post dal titolo "Del grande sottovalutato: il team" in cui, se da un lato compi un coraggioso mea culpa circa la scelta di team che tu e Tara avete fatto al momento di startuppare, dall’altro lanci un’accusa chiara e del tutto condivisibile all’indirizzo di coloro che non si rendono conto di quanto sia importante individuare collaboratori esperti e preparati e retribuirli in maniera congrua. Ma, al di là dei compensi economici, che cosa credi sia del tutto indispensabile per motivare il team di una startup? Esistono particolare tecniche di motivazione del team che ritieni siano efficaci?
Una startup raramente può competere con altre aziende sul piano economico. Quindi deve creare altre motivazioni. Ma quali? In Italia, per andare su un classico, è molto difficile distribuire stock-options. Quali altre leve puoi utilizzare? La cosa migliore è cercare persone che abbiano un forte interesse per ciò che la startup fa. Magari le trovi, ma da lì a convincerle a rinunciare a un lavoro meglio pagato ce ne passa. Malgrado la quantità di laureati in informatica ed ingegneria che abbiamo in Italia è molto difficile trovare bravi programmatori che non siano stati formati per fare i consulenti, cioè che abbiamo una proattività forte, indispensabile per creare valore in una startup. Negli USA è molto più facile trovare gente che ha la propria idea di startup e nel frattempo vuole lavorare per altri. Per fare esperienza ed essere pronto a lanciare la propria avventura quando sarà. Basta guardare a quanta gente è venuta fuori da Facebook ed ha lanciato qualche servizio che sta andando. Da noi, a parte che mancano compagnie come Facebook, il vero latitante è la motivazione personale. Per anni ti abituano all’idea che con una buona laurea potrai trovare un buon posto e quando poi finalmente puoi scegliere di fare finisci per risentire pesantemente di questa limitazione. Ci sarebbe da parlarne per ore.
Francesco – Cominciamo col dire che trovo le tue foto a dir poco splendide. Dal lavoro sul colore, sul contrasto e sulla luminosità ho l’impressione che tu sia alla perenne ricerca dell’aspetto intensamente romantico della vita quotidiana. Non importa quale sia il soggetto o lo scenario ritratto, c’è sempre un che di autunnale di "malinconicamente bello". Ho scelto quattro immagini e mi piacerebbe che le commentassi provando a collegare ogni ritratto e le emozioni che questo ti suscita ad alcuni momenti topici della tua vita privata e professionale.
Da queste parti è abbastanza comune che ci si disfi di vecchie cose mettendole sul marciapiedi con un cartello “free”. Questa poltrona, inzuppata dalla pioggia recente, mi faceva allegria con tutte quelle righe. Fa pensare a tutte le cose che lasciamo per strada andando avanti nel cammino. Alcune sono anche molto belle, ma non ci si può portare tutto dietro.
Sembrano le zampe artigliate di qualche rapace preistorico. E invece sono le radici di un qualche strano albero che da queste parti abbonda. Direi che è il contrario della foto di sopra. È tutte le cose che si abbarbicano a noi e non se ne vanno, qualsiasi cosa accada.
Lavori in corso. Vale a dire la vita di sempre. Almeno la mia.
Il canale oltre la rete? Sembra il titolo di un filmaccio di terza categoria. Di questa foto mi piace la sua banalità. Non ha niente di speciale, eppure regge lo sguardo. Credo che la banalità sia una forma di difesa.
Tara – L’universo femminile e quello tecnologico vengono spesso considerati antitetici, soprattutto in Italia, come se le donne fossero naturalmente allergiche alla tecnologia e, quindi, incapaci di comprenderla fino in fondo (figuriamoci di innovarla). Noi sappiamo che non è così, e tu sei la dimostrazione vivente del fatto che la passione per la tecnologia è come una benevola malattia: colpisce a caso, senza particolare attenzione al sesso dell’ammalato. Credi che una donna possa colorare un progetto di startup con sfumature diverse rispetto a quelle che saprebbe imprimere un uomo? Se sì, quali?
Onestamente credo due cose che sembrano negare l'una l'altra. Credo che uomini e donne sono fondamentalmente diversi per natura, a prescindere dall'imprinting culturale. Però credo anche che se a capo di un'azienda c'è una donna, non cambia molto la cultura dell'azienda stessa. Contraddittoria, lo so. Per divertirsi nel mondo delle startup, bisogna essere ossessionati dal trovare soluzioni. Per natura sia maschi che femmine sono in grado di farlo.
Tara – Nel corso della tua carriera, oltre che di design e copy, ti sei occupata principalmente di evangelism, customer support, formazione del personale e foundraising. Tutte attività che presuppongono un’enorme capacità comunicativa e una grande passione per la trasmissione di conoscenza. Ora, giacché i nostri lettori sono avidi di consigli, potresti dirci quali sono le cose da non dimenticare mai quando si intraprendono queste attività ? Insomma, qual la la “golden rule” di ognuno di questi settori?
Sei sempre al servizio dell'utente. Sempre, sempre, sempre.
Quando fai support, in realtà non stai risolvendo un problema tecnico, stai facendo sentire meglio qualcuno che ha avuto una frustrazione. Quando scrivi copy, stai cercando di regalare un momento di chiarezza a qualcuno che è sommerso da tante informazioni che non riesce più a districarsi. Quando disegni l'interazione del tuo software, stai cercando di rendere il tempo passato con la tua app il più piacevole possibile. Quando contatti un giornalista o blogger, stai cercando di aiutarlo a fare bella figura con i suoi lettori. Quando approcci un investitore, gli stai offrendo il grande sogno di essere "fra i primi a credere in…". In tutti i casi stai cercando di rendere il tempo passato insieme a te (e al tuo servizio/prodotto/azienda) un momento di sollievo dall'ambaradan della vita normale.
Tara – Ho trovato questa immagine sul tuo profilo.
È uno dei tanti, divertenti "demotivational" che girano in rete. Questo, in particolare, mostra uno stormtrooper di “Star Wars” piangere seduto ad un tavolo mentre la scritta recita "Rimpianti". Mi piacerebbe che commentassi quest’immagine rispondendo ad un quesito: chi è il Darth Vader della tua vita? Ovvero quel qualcosa (o quel qualcuno) contro cui combatti quotidianamente per affermare la tua identità e per compiere il destino che hai scelto per te?
Sono una superpatita di Star Wars, l'ho visto centinaia e centinaia di volte e riesco a citare quasi l'intero film a memoria. La mia citazione preferita è una frase di Obi Wan: "Who's more foolish, the fool, or the fool who follows" (Chi è più folle, il folle, o il folle che lo segue). Per me, quella frase spiega la vita.
E chi è il Darth Vader della mia vita? Beh, è lo stesso di tutti: me stessa. Darth Vader non è solo un cattivo, è il lato debole di tutti noi. Non a caso è dello stesso sangue dell'eroe Luke. Nel fare una startup, devi affrontare *tutte* le tue debolezze, ad una velocità da capo giro. Dopo solo due anni da imprenditore a rischio, devi aver fatto una crescita personale esponenziale, oppure l'azienda sarà già morta o morente. Conosco più persone che non sono state in grado. Una è stata addirittura ricoverata per esaurimento nervoso dopo aver portato l'azienda all'IPO.
Darth è dentro tutti noi. ;)
Francesco e Tara – Tara è stata un’ “americana a Roma” e Francesco, ora, è un “italiano in America”. Che opinione vi siete fatti circa l’approccio filosofico all’impresa della nazione “straniera”. In cosa sono “biologicamente diversi" italiani e americani quanto ad imprenditorialità?
F – In Italia l’imprenditore, storicamente, è visto come uno squalo, qualcuno che alle spalle di poveri lavoratori sfruttati si fa i soldi. Penso che in passato è stato spesso così. Ora non lo è più ma continua a sopravvivere la visione negativa da parte delle persone al difuori dell’ambiente. Negli USA si fa grande differenza fra l’imprenditore che prende un magazzino e ne fa un supermercato e l’imprenditore che crea qualcosa che non esiste. Questo secondo è addirittura mitizzato. Da noi resta un “imprenditore” con la “i” minuscola, un’altro che punta solamente ad arricchirsi alle spalle altrui. Io penso che in questa differenza di valore percepito e vissuto che sta la principale differenza fra Italia e Stati Uniti. Tutto il resto viene di conseguenza. Perché aiutare gli investimenti privati di rischio se vanno a finanziare speculatori senza scrupoli che quei soldi li spenderanno e li bruceranno senza curarsi di nessuno? Se la vedi così, non c’è nessuno che possa pensare di fare una legge defiscalizzante per gli investimenti in una startup. Ed invece questo è fondamentale per avviare un flusso virtuoso di capitali verso le aziende innovative. Altro problema fondamentale è che in Italia i sindacati sono rimasti quelli di cinquanta anni fa. Prendi tutta la polemica intorno alla Fiat, Termini Imirese, ecc. Quello che nessuno ha colto è che si stava decidendo non il futuro di mille operai (che pure è ovviamente importante) ma quello degli investimenti esteri in Italia, cioè si stava parlando della possibilità o meno che in futuro si creassero centinaia di migliaia di posti di lavoro o no. Io credo che anche stavolta si sia persa una grande opportunità, tanto per cambiare. Invece di esaltarsi per il fatto che la nostra tecnologia sia bastata a comprare la Crysler, si sono fatte battaglie per questioni puramente tattiche senza guardare al futuro strategicamente.
Insomma, il discorso è lungo e complesso. Sintetizzerei dicendo che qui negli USA c’è un ecosistema in grado di dare valore e forza alle iniziative private, mentre da noi un imprendiotre alle prese con una startup che voglia creare nuovi mercati deve fare un multiplo del lavoro per ottenere una frazione del risultato.
T – Concordo con tutto quello che ha detto Francesco. In più aggiungerei una mancata propensione degli italiani alla condivisione. Anche questo viene dalla storia, da quando tutti dovevano guardarsi le spalle, e ciascuno doveva pensare al proprio bene, per paura di essere defraudato dei propri beni. Invece la condivisione è un passaggio necessario alla creazione di una conoscenza comune dell’imprenditoria di rischio. La differenza principale, al mio avviso, fra Silicon Valley e Italia è questa conoscenza comune. Per costruirla ci vuole tempo e un’inclinazione alla fiducia, non alla sfiducia.
Tara e Francesco – C’è qualcosa che, secondo voi, gli italiani sanno fare meglio degli americani? E qual è, invece, la cosa su cui hanno più da imparare?
T – Gli Italiani sono molto creativi a mio avviso. C’è qualcosa nell’arte di “arrangiarsi” (parola e concetto che non ha traduzione in inglese) che si realizza nella capacita di trovare le soluzioni a problemi che sembrano non averne. Questo stesso atteggiamento si trova in tutti i buoni startuppari di tutto il mondo, ma mi sembra presente negli italiani di tutti i tipi – startuppari e non, dal nord al sud e in ogni classe economica.
F – Sull’imparare vorrei dire che si parla tanto di grande formazione USA nei confronti della povera università italiana. Ma se ne parla senza capire cosa realmente accada. Diceva un grandissimo fisico di Berkeley di cui adesso mi sfugge il nome: “l’insegnamento è sempre fallimentare, tranne quando è inutile”. Con questo voleva dire che insegnare ad uno studente poco smart dava raramente grossi risultati. Al contrario, quando c’erano grandi risultati capivi che venivano da uno studente che in una maniera o nell’altra le cose le avrebbe capite da solo. Io sono d’accordo e dico che il successo di certe università qui viene non tanto dalla qualità dell’insegnamento ma dalla qualità degli studenti che arrivano da tutto il mondo. Cosa dovrebbero imparare gli italiani? A condividere e collaborare, come diceva Tara sopra. Se si tiene tutto gelosamente per sé non si va da nessuna parte.
Tara e Francesco – Voi siete molto attivi nel gruppo Italian Startup Scene, lì ho avuto modo di conoscere il vostro pensiero e di apprezzarlo. Ma quel che mi piacerebbe sapere è: quale credete sia l’aspetto migliore e quale il peggiore dei gruppi come quello di cui fate parte?
T – Il gruppo non è chiuso. Può entrare chi vuole. Sono anni che cerco una comunità del genere, proprio perché credo che l’unico modo per avere successo è creare una conoscenza comune. ISS lavora in questa direzione. Sarebbe stato ancora meglio avere un gruppo di soli imprenditori e pre-imprenditori, cioè senza investitori. Lo so, va contro l’idea di trasparenza, ma gli imprenditori hanno bisogno di uno spazio in cui possano esprimersi liberamente, fare domande che possono essere “scomode” da fare davanti ai pochi investitori che un giorno dovranno decidere di investire o meno in te. Ultimamente c’è stato anche un caso di investitori che si sono *molto* incavolati perché un po’ di quella conoscenza comune rendeva la loro vita più difficile. La polemica che ne è seguita ha fatto sì che abbiamo creato dei canali veramente chiusi in cui parlare fra di noi.
F – E questo non è un bene. Del resto, sebbene l’obiettivo finale di imprenditori e investitori alle prese con una startup sia comune, il modo di arrivarci è molto diverso. La cosa che mi ha lasciato perplesso in molte discussioni è che gli investitori si lamentano degli imprenditori e del fatto che siano poco preparati e poi invece di dare contributi chiari alle conversazioni, si limitano a difendere il loro business. Il risultato finale è che ti passa la voglia di partecipare e se i pochi imprenditori che ci stanno diventano passivi su quel fronte il gruppo diventa uno spazio poco interessante. Per fare il caso di ISS, credo che i primi mesi di vita del gruppo siano stati molto più vivi ed interessanti. Adesso, anche a causa dell’allargamento della comunità, le cose sono diventate molto meno interessanti.
Tara e Francesco – Avete sentito parlare dell’iniziativa “Diamo un’Agenda Digitale all’Italia”? Che cosa ne pensate e qual è, a vostro avviso, l’operazione più urgente di cui l’Italia ha bisogno per cominciare a ridurre il digital divide?
T – Non conosco bene l’iniziativa, quindi non posso parlarne direttamente. Se devo esprimermi invece sul concetto più vasto del digital divide italiana, direi che il problema è che il popolo è vecchio (letteralmente) e poco propenso al rischio. Regna sempre la paura di essere fregati, e “Internet” è per moltissimi il grande spaventoso ignoto. Come risolverlo? Ecco, qui mi butto sul rivoluzionario: per risolverlo bisogna che tutti i politici attuali vengano mandati a casa e si riparta con un governo di giovani (dico sotto i 30 anni). Non ci sono abbastanza giovani italiani motivati? Ok, apriamo le porte agli immigrati – sono poveri e molto motivati a cambiare in meglio il proprio stato. Questo risolverebbe molto di più del digital divide.
F – Sono d’accordo. Credo che la ricchezza potenziale che arriva dai giovani immigrati è enorme e si tratta solo di capirla. Adesso vengono presi (sfruttati) nella industria agricola e lasciati a fare lavori che nessun altro vuole fare. Ma fra loro c’è una grande quantità di laureati e tecnici, gente che potrebbe dare veramente tanto a questo paese se solo gli si riconoscesse qualche diritto. Fra l’altro l’Italia diventa sempre più vecchia e senza di loro non abbiamo alcuna speranza di guardare al futuro. Tanto per dirne una, fra dieci anni siamo sicuri di stare ancora nel G20? Ci passeranno davanti (se non lo hanno già fatto): India, Brasile, Corea del Sud, Argentina (che cresce a bomba), Egitto (che era avviato bene anche con Mubarak), e via dicendo. “L’Italia ha bisogno di giovani, vieni anche tu in Italia”: questo è lo slogan che lancerei se fossi il premier (e qui non voglio aprire una parentesi che sarebbe penosa).