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High-tech italiano, questo sconosciuto

Anche se in Italia si investe poco in ricerca e sviluppo, il settore high-tech inizia ad essere molto importante in termini di fatturato e addetti. Ma resta sottorappresentato a Piazza Affari.
A cura di Luca Spoldi
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Stm high-tech Italia

Se si vuole parlare di high-tech in termini finanziari, parlare dell’America e dell’Asia è una scelta quasi obbligata, mentre è molto più difficile trovare argomenti interessanti in Italia. Del resto come ricorda anche l’Istat nonostante il conseguimento di un adeguato rapporto tra spesa per ricerca e sviluppo e Pil sia uno dei cinque obiettivi cardine stabiliti nell’ambito della strategia “Europa 2020” definita dalla Commissione Ue nel marzo 2010 per accrescere i livelli di produttività, occupazione e benessere sociale anche attraverso l’economia della conoscenza, “l’Italia, con un valore dell’indicatore pari all’1,23% (anno 2008), appare distante dai paesi europei più avanzati”, per quanto non lontana dall’obiettivo fissato a livello nazionale per il 2020 (1,53%). La capacità di crescita “appare però limitata in assenza di un forte rilancio delle politiche della ricerca. D’altronde, la debolezza italiana si conferma anche nel settore privato con un rapporto tra spesa in ricerca e sviluppo delle imprese e Pil pari a 0,65%, al di sotto della media europea (1,21%)”.

Nel Belpaese, insomma, si spende poco in ricerca e sviluppo e se a questo si sommano i limiti derivanti da un modello di capitalismo famigliare che sta da anni mostrando la corda, si capisce meglio come mai da un lato dai 30 ai 48 mila (a seconda delle stime) ricercatori, dottorandi e neolaureati in discipline tecniche finiscano ogni anno con l’emigrare all’estero, dove trovano lavori ben retribuiti (e dove evidentemente lasciano il frutto delle loro ricerche), dall’altro sul listino azionario di Piazza Affari siano giusto una ventina i titoli che si possono considerare a pieno titoli dei titoli “high tech”, per una capitalizzazione complessiva di circa 7,22 miliardi di euro (meno di quanto capitalizzi il solo titolo Enel Green Power, ossia la controllata di Enel impegnata nella produzione da fonti rinnovabili), di cui 4,9 miliardi rappresentati dal solo titolo Stmicroelectronics.

Quali sono i settori maggiormente rappresentati dell’high-tech italiano in borsa? Quasi esclusivamente ciò che ruota attorno alla produzione di hardware (da Stm a Olidata passando per Eurotech) o software (Cad It, B.E.E. Team, Tas, Txt e-Solutions), nella distribuzione o integrazione di servizi (Reply, Engineering, It Way), nell’e-commerce (Dmail, Chl, Yoox) nell’editoria elettronica e Ict (da Buongiorno a Dada, passando per FullSix) e persino nella biotecnologia (MolMed e Cell Therapeutics) anche senza tenere conto di BB Biotech, che è quotata a Milano ma di fatto è un fondo d’investimento svizzero specializzato in investimenti in aziende del settore biotecnologico.

Il problema è a ben vedere non solo una questione di nomi o di numerosità degli stessi, quanto di rappresentatività: l’e-commerce in Italia nel 2010 secondo alcuni studi ha toccato quota 14,3 miliardi di fatturatoma a Piazza Affari supera di poco i 500 milioni di euro di capitalizzazione; l’intero settore web secondo un’analisi del Boston Consulting Group sempre a fine 2010 era ormai arrivato a valere 31,5 miliardi di euro di fatturato, impiegando oltre 150 mila addetti, ma sul listino di Milano se ne scorge appena traccia con una capitalizzazione inferiore al miliardo di euro.

Personalmente credo che oltre a un problema culturale si tratti lo scarso peso di un settore così vitale dell’economia italiana in borsa dipenda dal fatto che molte aziende, anche high-tech, restano in Italia di dimensioni contenute e dunque sono poco appetibili per gli investitori istituzionali (e spesso anche per i fondi di private equity o di venture capital). Tuttavia sono anche convinto che in parte l’apparente disinteresse reciproco di Piazza Affari per le aziende high-tech tricolori e viceversa dipenda da una ancora relativamente modesta visibilità di questo settore rispetto ad altri molto più maturi.

Così finiamo col leggere ogni giorno di aziende come Alitalia, la cui controversa privatizzazione ha riempito per mesi le cronache economiche italiane anche se, alla fine, l’ex compagnia di bandiera (ormai delistata da Piazza Affari) impiegava, assieme ad Air One, non più di 19.500 addetti prima del “salvataggio patriottico” compiuto da Cai che ha comportato 7 mila esuberi e un costo per i contribuenti italiani attorno ai 3 miliardi di euro. Oppure continuiamo a leggere delle Poste Italiane che coi suoi 154 mila dipendenti è sì il maggior gruppo italiano per numero di addetti, peccato solo che fatturi poco più di 10,2 miliardi di euro l’anno (quindi un terzo di quello che fattura nel complesso il solo settore web che impiega all’incirca lo stesso numero di addetti ma che è certamente solo una parte, per quanto importante, di tutto il mondo “high-tech” italiano). E che dire del gruppo Fiat, che nella  vulgata comune continuerebbe a rappresentare una sorta di “termometro” del benessere dell’economia italiana? Come molte altre aziende italiane vede in realtà il suo fatturato dipendere sempre più dall’estero (senza contare l’apporto della controllata americana Chrysler, il gruppo guidato da Sergio Marchionne a fronte di un 60% di fatturato in Europa, di cui poco più della metà in Italia, nei primi nove mesi del 2011 ha fatturato il 40% delle sue vendite nel resto del mondo), il che è certamente un bene per i suoi azionisti privati, forse meno per l’economia italiana.

Insomma: il settore high-tech italiano, pur con tutti i limiti e le difficoltà che lo caratterizzano rispetto ai competitor esteri, è una realtà solida e in crescita che resta il più delle volte sconosciute al grande pubblico e agli investitori. Nelle prossime settimane proverò a elaborare un paniere costituito dai principali titoli quotati del comparto e a valutarne l’evoluzione rispetto agli indici di riferimento principali, per cercare di dissipare in parte questa nebbia, sperando che una maggiore informazione possa favorire un ulteriore sviluppo degli investimenti, di cui mai come in questo periodo si è sentito bisogno. Ah, un’ultima cosa: qualche giorno fa parlavo con un importante editore italiano attivo tanto sul fronte della carta stampata quanto dell’editoria elettronica. Ebbene, pare che nei primi nove mesi questo gruppo abbia visto il 60% del suo fatturato provenire dalle attività legate al web e solo il 40% da quelle “tradizionali”, mentre parlando con i centri media italiani ho avuto la conferma che il valore della raccolta pubblicitaria sul web continua a crescere anche in tempo di crisi ed è ormai a livelli del tutto comparabili con quelli della carta, pur rimanendo una frazione (non più così piccola, peraltro) di quella televisiva. I tempi sembrano maturi per un cambio di paradigma, i vecchi dinosauri della “old economy” si stanno riorganizzando o scomparendo e peseranno sempre meno nelle nostre vite, anche professionali, non solo per quanto riguarda i mercati finanziari.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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