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Secondo la Cassazione Google non è responsabile del caso Vividown

La Corte di Cassazione mette la parola fine sul caso Google-Vividown ritenendo che Google non fosse diretto responsabile del video che venne caricato su YouTube.
A cura di Francesco Russo
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La Terza Sezione Penale della Corte di Cassazione nei giorni scorsi ha depositato le motivazioni della sentenza che fa ancora discutere, così come il processo che ne è scaturito, il primo a livello internazionale, in relazione al caso Google-Vividown. Sentenza emanata lo scorso dicembre che ha visto la piena assoluzione di Google. Concetto principale su cui si basa tutta la struttura della sentenza è che Google viene visto come un provider per cui non è responsabile dei contenuti che vengono caricati sui propri siti.

google-vividown

Era il 2006 quando su YouTube apparve un video in cui un ragazzo disabile che veniva malmenato e schernito da altri ragazzi, suoi compagni di classe. Il video fece scandalo e sollevò un chiaro problema di responsabilità in relazione ai contenuti pubblicati online e anche un problema di privacy. Sotto processo finirono i tre managers di Google Italia, responsabili della violazione della legge sulla privacy. In sostanza a Google veniva contestata la mancanza di controllo sui contenuti che vengono pubblicati online. Nel 2010 i managers vengono condannati a sei mesi di reclusione con la condizionale; poi in Appello l'accusa cade completamente e i tre managers vengono assolti; infine, il 17 Dicembre scorso, la Cassazione mette la parola fine a questa vicenda, assolvendo completamente i tre managers di Google e di fatto dichiarando che Google, mettendo a disposizione uno spazio web, non è responsabile dei contenuti, quindi neanche dei dati sensibili che essi contengono, quindi non è soggetto ad alcun tipo di obbligo. Ecco un passaggio essenziale delle motivazioni della sentenza:

Dall’esame delle norme emerge che in nessuna di esse sia prevista che in capo al provider, sia esso anche un hosting provider, un obbligo generale di sorveglianza dei dati immessi da terzi sul sito da lui gestito. Né sussiste in capo al provider alcun obbligo sanzionato penalmente di informare il soggetto che ha immesso i dati dell’esistenza e della necessità di fare applicazione della normativa relativa al trattamento dei dati stessi”.

E ancora:

I reati di cui all'articolo 167 del Codice privacy, per i quali qui si procede devono essere intesi come reati propri, trattandosi di condotte che si concretizzano in violazioni di obblighi dei quali è destinatario in modo specifico il solo titolare del trattamento e non ogni altro soggetto che si trovi ad avere a che fare con i dati oggetto di trattamento senza essere dotato dei relativi poteri decisionali".

Le motivazioni della sentenza n. 5107 senza dubbio sottolineano la chiara responsabilità di coloro che creano e caricano i contenuti online, individuati come titolari del trattamento dei dati sensibili eventualmente contenuti, i quali sono i soli a cui possono essere applicate le sanzioni, amministrative e penali, previste per il titolare del trattamento del Codice Privacy. Da questo punto di vista, questa sentenza, rimanendo sul caso a cui facciamo riferimento, punta il dito contro coloro che sono chiamati ad esercitare un livello di controllo a monte, ossia la scuola, chiamata a contrastare e a isolare qualsiasi forma di bullismo, e la famiglia, chiamata ad avere un maggior dialogo, attento e costante, al fine di evitare gravi e spiacevoli casi come questi.

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