11 settembre e boom tecnologico: la paura innesca l’innovazione
Dieci anni di crisi. Dieci anni di follia. Dieci anni di innovazione e rivoluzione. Tutto comincia da lì, dal giorno che –non a caso– viene ricordato non per mezzo di un nome o di un’espressione poi diventata proverbiale –com'è accaduto con “La grande guerra” o “La lunga marcia”- ma attraverso una data: 9/11.
Semplice. Catastrofica. Irrimediabile.
9/11 era già da tempo una data segnata a calendario come una delle più tristi della storia. Pochi la ricordavano, all’epoca. Pochi la ricordano ancora oggi. Ma quel precedente risuona nell’aria, a mo’ di presagio, quasi a voler fornire un macabro (e discutibile) equilibrio alla storia dell’uomo.
Al momento dell'impatto del primo aereo contro la prima torre, per tutti è stato chiaro fin da subito -mentre ancora l’occhio del ciclone pulsava sopra le nostre teste- che il mondo era prossimo al ribaltamento. Si salvi chi può è stato il motto che, più o meno consciamente, ognuno di noi è andato ripetendo a sé stesso per mesi, anni… come un mantra. L’intero pianeta era in pericolo, nessuno poteva considerarsi al sicuro: né le persone, né i governi, né le aziende… Davanti a questa immensa mole di smarrimento e terrore che, volente o nolente, ha pervaso tutti, la prima risposta è stata un’impennata tecnologica (quasi) senza precedenti.
L'idea che sta alla base di questa vertiginosa accelerazione (almeno nella sua formulazione sistematica) è vecchia di oltre mezzo secolo, ma si potrebbe dire senza tema di smentita che l'istinto alla creazione d'opere d'ingegno a fini "protettivi" è insita nella natura stessa dell'uomo. Il principio è che nell'innovazione tecnologica risiede l'unica speranza di salvezza dell'uomo da tutti gli 11 settembre della sua storia. Dalla tecnologia ci si aspetta sempre un'invenzione in risposta alla catastrofe; qualcosa che sia in grado di fare ciò che fuoco e pelli d'animale fecero per gli uomini primitivi: proteggerli. Ma, alla luce del fatto che (fin dalla notte dei tempi) sono quasi sempre degli uomini a ferirne altri, che cosa potrebbe mai proteggere l'uomo da se stesso? Qualcuno, un tempo, ipotizzò una soluzione possibile: l'informazione totale, la trasparenza nelle mani di macchine programmate ad agire per il bene.
È esattamente verso tutto questo che corriamo a più non posso e, sebbene la ricerca e l'innovazione siano terribilmente viziate da interessi di corporazione, giochi politici ed economici, alla fine sarà l'istinto di sopravvivenza ad avere la meglio e l'homo technologicus conquisterà la tanto agognata pelle d'orso 2.0.
Nel giro di un decennio, la tecnologia ha letteralmente piombato nel passato remoto gli anni ’90. Sembrano passati secoli da quando Google, Facebook, gli smartphone, la realtà aumentata, la geolocalizzazione, la cloud e tutto quanto ha preso forma nell’ultimo decennio sarebbe potuto uscire (al massimo) dalla penna di qualche immaginifico scrittore di sci-fi. La tecnologia ha tentato di fornire all’umanità la risposta che molti aspettavano fin dai tempi della bomba atomica e degli studi sulla cibernetica: un mondo trasparente in cui tutti sono a conoscenza di tutto o -almeno- vivono nella convinzione di poter conoscere, prevedere, capire e non essere più sorpresi dagli eventi.
Quel Si salvi chi può è diventato un Ohm collettivo e, alla fine, ha prodotto strumenti dall'immagine salvifica: oggi tutto ha un volto nuovo, dagli aspetti più banali a quelli più problematici del vivere sociale tutto è stato modificato dall'idea che per il bene dell'umanità, occorre sapere tutto, sempre. Le persone non si perdono più per le strade di città sconosciute (a meno che non lo desiderino), non smettono di frequentare nuovi amici solo perché l'estate è finita o perché sono costrette cambiare città, un terremoto dall'altra parte del mondo diventa una tragedia collettiva, un anonimo tweet può fare il giro del mondo e determinare un sommovimento culturale, la pubblicazione di un documento in Internet può mandare a gambe all'aria i governi. Ci sono, poi, popoli illuminati, che hanno imparato ad utilizzare le nuove tecnologie per rendere migliore il mondo in cui vivono (è il caso dell'Islanda), altri scelgono di aver paura persino di quella che -in teoria- doveva essere la soluzione al terrore: una vita comunitaria, collettiva, condivisa 24 ore su 24.
La verità è che da quell'11 settembre viviamo spaventati, disorientati, armati di tecnologia fino ai denti, desiderosi di rendere pubblico ciò che prima era privato per il solo desiderio di conoscere tutto, illudendoci che nulla più si possa nascondere e, quindi, nulla di orribile possa più capitare negli anfratti del mondo perché la tecnologia ci salverà. Internet attraversa le nostre vite, ci accompagna dall'alba all'alba, i social network ci tengono insieme e -attraverso i dispositivi mobili- ci seguono ovunque. Ma tutto quanto abbiamo creato sull'onda dello spavento non è -ancora- in grado di impedire il ripetersi di un evento di quella portata. Quel che è certo -però- è che l'elaborazione di un avvenimento del genere oggi sarebbe radicalmente diversa.
La tecnologia ha creato connessioni invisibili tra miliardi di persone, ha ideato strumenti che favoriscono sia la distrazione dall’idea di un pericolo imminente, definitivo, che strumenti capaci di immergerci completamente nel corso degli eventi. Dopo l’11 settembre gli uomini hanno delegato agli scienziati il compito di studiare un sistema che li aiutasse a non avere più paura. Ma, in realtà, la maggior parte dei device tende a rimuovere la percezione immediata della paura dalle coscienze, punta alla distrazione di massa e a lasciare che il terrore scivoli in luoghi bui della mente. Questo non significa, però, che la paura smetta di produrre effetti.
Non è certo questo il luogo in cui indagare le cause, individuare le colpe e svelare i complotti che certamente esistono dietro gli eventi del 9/11 ma, allo stato delle cose, essi non modificano di una virgola l’affermazione che poniamo alla base della presente analisi: l’11 settembre 2001 è il punto di non ritorno della storia contemporanea e l’accelerazione nell'innovazione tecnologica è figlia di quell’evento. L’attacco alle Torri Gemelle è l’esplosione atomica degli anni 2000: un avvenimento con conseguenze psicologiche e sociologiche inimmaginabili, impossibili da indagare in termini esaustivi persino a dieci anni di distanza.
Sono dieci anni che il pianeta vive in uno stato di indomabile fermento politico, economico, tecnologico, culturale… Chiunque sia stato a far crollare le torri è andato ben oltre l'immaginabile: a crollare non è stato solo simbolo del Capitale, è stato tutto il sistema che sul capitale si fonda. E forse è proprio dal momento immediatamente successivo all’impatto che ha cominciato ad aleggiare sulle nostre teste quel bisogno estremo di comunità che si è formalizzato –poi- nella nascita e l’affermazione dei social network, come se non fosse più tollerabile vivere tragedie di quella portata nella solitudine delle proprie esistenze, come se fosse inevitabile -con il crollo dell'ultima certezza- cominciare a far gruppo nel tentativo di ricostruiore. Dopo l’11 settembre, ad andare in crisi è stata soprattutto la coscienza collettiva, quella cosa che ci rende umani tra gli umani. Le certezze si sono sfilacciate, le gambe hanno cominciato a vacillare e la prima reazione è stata di panico totale.
Nessuno vuole stare solo quando ha paura. E allora ecco che è sembrato lecito (se non imperativo) inventare un sistema che consentisse di tenere vivi i contatti con le persone e il mondo intero, sempre. Un sistema che consentisse di prevedere gli eventi, per evitare di vederseli comparire nel cielo -all'improvviso- sotto forma di enormi e minacciose torce fumanti dalle cui sommità precipitano, come foglie, uomini disperati.