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Opinioni

Anche per investire nell’high-tech le dimensioni contano

Settimana negativa su tutti i mercati azionari, ma mentre a New York il Nasdaq100 fa meglio del Dow Jones, a Milano l’indice Italia Tech fa peggio dell’Ftse Mib. E’ un problama di dimensioni.
A cura di Luca Spoldi
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Nasdaq

Investire in titoli high-tech può fare la differenza durante periodi di crisi come l’attuale? La risposta è: dipende. Se provate a puntare su uno dei 26 componenti dell’indice Italia Tech elaborato da 6 In Rete Consulting per Tech Fanpage, mediamente questa settimana sareste andati incontro a una cocente delusione, visto che l’indice è calato nel suo complesso del 10,65%, facendo decisamente peggio di un risultato già pesantemente negativo dell’indice principale di Piazza Affari, l’Ftse Mib che in sole cinque sedute ha perso l’8,50%. Se invece aveste puntato su uno dei 100 maggiori titoli tecnologici statunitensi, compresi nell’indice Nasdaq100 non sareste riusciti ad evitare una perdita, ma l’avreste mediamente dimezzata (l’indice ha perso infatti solo il 4,57%, appena meglio dell’indice Dow Jones dei primi trenta maggiori titoli americani che invece ha segnato un calo del 4,78%.

Ancora una volta in finanza le dimensioni (in termini di capitalizzazione delle singole aziende) contano eccome e la trasparenza ed efficienza dei mercati su cui i titoli vengono scambiati altrettanto se non di più e purtroppo sotto questo profilo l’investimento in titoli high-tech italiani resta quanto meno svantaggioso rispetto alle alternative estere, con una capitalizzazione che si è ulteriormente assottigliata, calando dai 6,9 miliardi della scorsa settimana a soli 6,1 miliardi, di cui 3,96 miliardi rappresentati dalla sola Stmicroelectronics (che in settimana ha perso il 13,52%). Non a caso le cose più turpi (almeno per quanto riguarda la performance settimanale) sono capitate guarda caso a titolini sottili sottili, di aziende che il mercato valuta nel complesso quanto (o meno) un appartamento di lusso a New York, non senza ragione.

Dmail, andamento quotazioni a 5 anni

Dmail ad esempio ha perso il 33,54% ed ormai vale poco più di 9 milioni di euro di capitalizzazione contro i 112,9 milioni di euro raccolti collocandosi in borsa nel giugno di 11 anni fa, come dire che la società, che una ricerca di Intermonte Sim giudicava potesse valere fino a 2,2 euro per azione “una volta portato a termine il rifinanziamento del debito”, pari al 162% del patrimonio netto a fine 2010 e visto salire al 185% alla fine di quest’anno prima di scendere al 130% nel 2013 (chi avesse mai seguito qualche mia lezione di Economia e Organizzazione Aziendale al Politecnico di Napoli sa che un debt/equity che resti superiore al 100% per periodi di tempo prolungati è difficilmente sostenibile e dunque non è indice di sana gestione), e non appena l’azione di rilancio portata avanti dal management avesse “iniziato a produrre effetti” visibili sui conti, non solo ha bruciato oltre il 92% del valore per i suoi azionisti, ma vale poco più del 11,5% del suo fatturato (che è di 78 milioni di euro l’anno), ovvero un paio di volte circa il suo Ebitda (o Margine operativo lordo, pari a 4 milioni lo scorso anno e visto attorno ai 5 milioni a fine 2011).

Perché, si chiederà qualcuno, vengono portati sul mercato titoli dal valore così modesto e così fortemente indebitati? Perché il capitalismo familiare italiano non è mai riuscito a crescere ed è intrinsecamente povero di capitali: il 70% del Prodotto interno lordo (Pil) del Belpaese è realizzato da Piccole e medie imprese (Pmi) che ricevono un credito limitato da parte delle banche, non vogliono quasi mai cercare nuovi soci perché il proprietario non vuole “perdere il controllo” della propria azienda, faticano ad investire non avendo particolari sostegni dallo stato e anche quando riescono a guadagnare una posizione di leadership in alcune nicchie di mercato finiscono col diventare una preda appetibile per concorrenti internazionali di maggiori dimensioni (o col venire marginalizzate non appena “i grandi” scendono in campo). Aggiungeteci l’inveterata abitudine italiana che vuole un “imprenditore ricco, impresa povera” come spesso sento ripetere a molti convegni di private equity, l’interesse degli intermediari a quotare in borsa qualsiasi cosa purché respiri ancora (per poter guadagnare commissioni), la scarsa visibilità per non dire la cattiva fama di cui gode l’Italia presso molti investitori internazionali e il gioco, purtroppo, è fatto in senso negativo per le nostre “small cap” tecnologiche.

C’è naturalmente qualche eccezione di qualità, così anche questa settimana un gruppo davvero innovativo e ben gestito come Yoox riesce a limitare i danni (-2,81%), ma appunto stiamo parlando di un’azienda che “vale” in termini di capitalizzazione quasi mezzo miliardo di euro (485,8 milioni al momento). Le “dimensioni” contano del resto anche su mercati più evoluti e si legano ad un altro concetto, quello di volatilità delle quotazioni. L’indice Russell 2.000, che raggruppa 2 mila “small cap” (piccole capitalizzazioni) quotate sul listino di New York ha infatti perso in settimana il 7,4%: se ne osservaste l’andamento nel corso degli anni notereste che questo indice (e a maggior ragione i suoi singoli componenti) tende ad amplificare i movimenti positivi o negativi rispetto a quelli di altri indici come il Dow Jones o l’S&P500 che invece sono calcolati su titoli a grande capitalizzazione.

Secondo un noto modello che analizza l’equilibro dei mercati finanziari (il Capm o Capital Asset Pricing Model, proposto da William Sharpe nel 1964 e per molti versi valido ancora oggi) questo deriva dal fatto che il “beta” di questi titoli è superiore a uno, ossia titoli come questi sono “aggressivi” rispetto ad un portafoglio medio di mercato (che dunque rappresenti fedelmente la composizione del mercato stesso), dove l’aggressività (il beta) è appunto la misura di quanto più ampie sono le variazioni di prezzo del singolo titolo (o di un paniere di titoli) rispetto alle variazioni medie di mercato. Non vado avanti oltre perché non voglio farvi una lezione di statistica, tenete solo a mente che non sempre investire nel “nuovo” vuol dire investire in modo vincente: dipende sempre dal momento in cui si investe e dalle caratteristiche (anche “dimensionali”) del titolo in cui si investe. Altrimenti meglio puntare direttamente sulla vostra azienda e investire in innovazione voi stessi per migliorare i vostri prodotti e servizi.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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