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Così l’esercito di troll cinesi ha censurato il coronavirus online

Un reportage di ProPublica e New York Times torna a puntare il dito contro il Pechino, accusata di aver messo in piedi una macchina per la manipolazione del pensiero sui social fatta da un esercito di troll pagati per diffondere disinformazione e reprimere il dissenso online sulla gestione della pandemia.
A cura di Lorenzo Longhitano
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Gmail Censura Cina

Fin dai primi mesi dall'esplosione della pandemia di coronavirus la Cina è stata accusata di manipolare le informazioni che circolavano non solo all'esterno del Paese, ma anche tra i suoi stessi cittadini. Le accuse sono presto finite lontano dai riflettori per fare posto alla gestione vera e propria dell'emergenza in tutto il mondo ma oggi, a circa un anno dallo scoppio della pandemia in Cina, un reportage di ProPublica e New York Times torna a puntare il dito contro il Pechino, accusata di aver messo in piedi una macchina per la manipolazione del pensiero sui social fatta da un esercito di pagati per diffondere disinformazione e reprimere il dissenso online.

Le due testate affermano di aver ottenuto documenti che dimostrano come il governo cinese abbia attivato un sistema per il controllo dell'opinione pubblica fatto di censura e interferenze. Ai tempi della morte del medico Li Wenliang, che per primo aveva puntato i riflettori sull'allora nuovo coronavirus, a testate e piattaforme social è stato dato l'ordine di non coprire la notizia con notifiche push sugli smartphone dei cittadini e di rimuovere gradualmente il suo nome dalla lista degli argomenti più discussi online. Pechino avrebbe inoltre "ingaggiato un esercito di commentatori per inondare i social con chiacchiericcio e interventi di distrazione di massa", raccomandando a ciascuno di "non esporsi rivelando al propria identità e di ottenere i risultati richiesti senza mettersi in mostra".

Le prime accuse nei confronti della Cina risalgono a marzo di quest'anno, quando il governo del Paese era stato accusato di censurare i contenuti sul coronavirus presenti su social network e piattaforme di messaggistica. Ai tempi i ricercatori di Citizen Lab parlarono di filtri di rimozione che cancellavano i messaggi contenenti determinate parole chiave, ma le tipologie di interventi sulle quali puntano il dito ProPublica e New York Times sono più complessi. Le due testate parlano di migliaia di diverse direttive uscite dagli uffici governativi nel corso dei mesi, ciascuna pensata per controllare settori specifici della macchina della propaganda del Paese: dal contenuto e dal tono delle notizie riportate alle attività di migliaia di troll pagati per soffocare le conversazioni più insidiose inondandole di materiale innocuo, fino all'impiego di forze di sicurezza impiegate per silenziare il dissenso.

Secondo le 3.200 direttive e le 1.800 note interne analizzate indipendentemente dalle due testate emerge un sistema di complessità difficile da descrivere, che comprende sistemi di pagamento tarati sulla quantità e la tipologia di contenuti di distrazione pubblicati da chi ha partecipato al programma e un sistema a punti per valutare la capacità delle piattaforme di adeguarsi a quanto richiesto loro. Come ha spiegato a ProPublica il fondatore di China Digital Times, "Non serve solo a censurare contenuti. Si tratta di un apparato potente, capace di costruire da zero un intero modo di percepire un fatto o un evento, e di direzionare questa narrazione a qualunque sia l'obbiettivo prefissato". Qualcosa "che nessun altro Paese ha a disposizione", e che la Cina avrebbe utilizzato per modificare la percezione della pandemia all'interno dei confini nazionali fin da gennaio, per poi allentare la stretta nei mesi successivi.

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