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Ferruccio De Bortoli: “Il giornalista della carta stampata non esiste più”

Nella sua relazione sullo stato del quotidiano il direttore del Corsera analizza la condizione del giornalismo in Italia, sentenziando la scomparsa della figura tradizionale del reporter ma sminuendo allo stesso tempo l’esperienza di chi da sempre svolge la professione online. Apertura obbligata ai nuovi media e ai social network ma non mancano gli attacchi ai big come Google e l’analisi sui futuri scenari possibili in Italia.
A cura di Angelo Marra
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Il mondo del giornalismo,così come lo abbiamo conosciuto finora, è ormai prossimo alla scomparsa. Ne è convinto Ferruccio De Bortoli, direttore del Corriere della Sera, che ha analizzato il rapporto tra la carta stampata e l'editoria digitale nella sua relazione sui tre anni di direzione della testata di via Solferino (scarica il doc originale da PrimaOnline). La posizione assunta da De Bortoli è molto chiara; la conversione del giornalismo agli strumenti multimediali è una manovra obbligata per la quale non vi è più scelta. I motivi alla base di questa affermazione sono sostanzialmente due; la prima è sicuramente l'enorme potenzialità offerta dalla rete in termini di arricchimento dell'informazione fornita agli utenti, con la possibilità di ampliare le notizie con contenuti multimediali disponibili su diverse piattaforme. Al tal proposito De Bortoli afferma:

Non ha più senso dire: scrivo per la carta, per il web o per l’iPad. Si scrive per tutto il sistema Corriere. Senza possedere le chiavi della tecnologia, non potremo più salvaguardare la qualità. Senza conoscere la grammatica e la sintassi delle nuove comunità in Rete, non avremo la possibilità di intercettare nuovi lettori. Inutile illudersi che il lettore o il navigatore scopra da solo la qualità e la confronti con altre offerte informative. Il lettore dobbiamo andarlo a cercare noi, con umiltà, utilizzando ogni canale, ogni social network, ogni algoritmo a disposizione. Le conoscenze tecnologiche sono la condizione per salvaguardare le competenze giornalistiche.

Una scelta del genere potrebbe all'apparenza sembrare solo una strategia dei gruppi editoriali per ampliare la propria offerta, non fondamentale quindi alla semplice sopravvivenza. In realtà, ecco il secondo motivo, si tratta di una conversione ormai obbligata.

Il 50 per cento di chi cerca notizie in Italia digita prima di tutto Google. E ciò consente a Google di prosciugare i ricavi pubblicitari dei giornali tradizionali riproducendone gratis i contenuti. Senza riconoscere il diritto d’autore. In tutti gli altri Paesi l’informazione in Rete è dominata da aggregatori e giganti televisivi. La tenaglia si sta chiudendo e questo impone agli editori, soprattutto al nostro, chiarezza strategica e interventi tempestivi. L’esatto opposto delle liturgie alle quali abbiamo assistito in questi giorni.

De Bortoli esprime anche preoccupazione per la possibile nascita di grandi gruppi che potrebbero in qualche maniera catalizzare il traffico nelle news online.

Oggi nel nostro Paese, anche per la protezione della lingua, non abbiamo ancora avuto tutta la massiccia concorrenza dei grandi aggregatori, come Google o Amazon, o dei grandi network come Sky e la stessa Mediaset. Se quest’ultima, come sembra, acquistasse Libero e Virgilio, unendoli a Tgcom, formerebbe un formidabile player. Google e Amazon sono in grado di fare un boccone dei giornali tradizionali, se solo decidessero di investire massicciamente in risorse giornalistiche.

Per contrastare questo strapotere occorre aggiornare la propria strategia aprendosi al mondo della rete e dei social network, una realtà fondamentale dalla quale poter attingere nuovi lettori e nuovi mercati.

Nel 2011, per la prima volta, gli utenti Internet hanno superato il 50 per cento della popolazione. Nel marzo scorso gli iscritti a Facebook erano 22 milioni, quelli a Twitter  2,5 milioni. I social media hanno dato vita a una forma nuova di giornalismo partecipativo che ha prodotto profondi mutamenti nella società e nella politica. Basti pensare a quello che è accaduto con la primavera araba. Ma hanno reso ancora più indispensabile il nostro lavoro. Chi partecipa a una comunità multimediale vuole essere informato. Correttamente e tempestivamente. Ha bisogno di una certificazione di qualità che solo le grandi testate, per ora, possono dargli. Ma se su quei social network, noi non ci siamo, il nostro giornale non è adeguatamente rappresentato, i nostri giornalisti non ci sono, i lettori-navigatori si rivolgeranno altrove. Per sempre. Quando vi dicevo che il giornalista della carta stampata non esiste più, intendevo questo. Non si può pensare di aver esaurito il proprio compito scrivendo, e bene, il proprio pezzo sulla carta e basta. Perché quel pezzo si trasforma, con la nostra firma, il nostro marchio, in un articolo geneticamente modificato che suscita interesse e discussione. Se noi non lo seguiamo, partecipando a nostra volta, discutendo con il pubblico della Rete, quel pezzo sarà un orfano editoriale che si rivolterà contro di noi o diventerà qualcos’altro, con la nostra firma o con il peso della nostra assenza. La figura del social media editor sarà non solo indispensabile ma determinante nel disegnare il futuro delle testate tradizionali. Ognuno di noi è già un social media editor. Se conosce strumenti, regole e linguaggi, può svolgere un ruolo attivo, da protagonista: capire tendenze e interessi dei propri lettori, anticipare fenomeni di costume, crescere professionalmente e affermarsi pubblicamente. Ma avrà anche la responsabilità di garantire e promuovere la reputazione del proprio giornale. Dialogare costantemente con i lettori, rispettandoli, è una necessità.

LA CRITICA AI GIORNALI NATI IN RETE – Meno condivisibile la posizione del direttore del Corsera quando parla dei giornali che si sono sviluppati solo su internet; secondo De Bortoli infatti sono privi dell'esperienza e del back office dei grandi quotidiani cartacei. Senza nulla voler togliere alla consolidata tradizione di una colonna del giornalismo come il Corriere della Sera, che ha sfornato alcune delle firme più prestigiose del panorama italiano, il direttore dimentica il background culturale dei web journalist di nuova generazione, molto più addentrati nel mondo della rete rispetto agli incravattati reporter tradizionali. Basti pensare che persino il Premio Pulitzer, da sempre la massima onorificenza riservata ai reporter, si è aperto al giornalismo digitale e quest'anno è stato assegnato all'Huffington Post, una testata nata e sviluppata esclusivamente in rete.

De Bortoli conferma l'importanza per il cronista della vitale conoscenza del mondo di internet ma non riconosce questa competenza a chi ha sempre scritto in rete, a chi fin dalla nascita delle prima piattaforme di aggregazioni, i primi esperimenti nel campo dei social network, ha seguito, analizzato e studiato il fenomeno del web in tutte le sue sfaccettature. Il giornalismo tradizionale, forse per un intrinseco snobismo della categoria ha sempre guardato con una certa freddezza, se non con fastidio, alla rete e alle sue potenzialità ed è stata questa inadeguatezza a trasformare in “condanna”, in “obbligatoria”, una conversione che in realtà è semplice evoluzione della professione.

Il distacco dal mondo di internet ha segnato la fine del giornalismo tradizionale, una rivoluzione che ha riguardato solo in minima parte chi nella rete è nato ed ha mosso i primi passi e adesso offre informazioni e notizie agli utenti pur non avendo un secolo di esperienza alle spalle. Molto probabilmente la rete non ha ancora partorito firme del calibro di Indro Montanelli ma è assai probabile che il grandissimo giornalista, nonostante una carriera gloriosa alle sue spalle, avrebbe avuto certo poca dimestichezza con un mondo, quello di internet e del web, che è ormai impossibile ignorare ma che non faceva parte della sua formazione personale e professionale. Auspicare che il giornalismo tradizionale si apra alla cultura digitale sminuendo l'esperienza di chi da sempre ha operato online rischia di apparire come l'ennesima tutela cieca della propria lobby, più o meno lo stesso errore che ha portato la carta stampata a trovarsi del tutto impreparata alla rivoluzione digitale.

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