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Google si arrende alla Cina: dopo due anni di boicottaggio, ecco il dietro front

Dopo due anni di boicottaggio (seppure parziale) del mercato cinese, Google fa marcia indietro e riapre la sede di Pechino. Pur assicurando di volersi occupare di ecommerce e non di ricerca online -per via del sistema censorio- il dietro front apre comunque dilemmi di ordine etico. In virtù della loro potenza economica, paesi come la Cina -oggi- possono davvero permettersi tutto?
A cura di Anna Coluccino
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Google china

Senza l'attitudine all'ipocrisia nessuna multinazionale, nessuna grande azienda potrebbe mai sopravvivere in un sistema economico neoliberista.

Questa è un'affermazione che, senza dubbio, ha il tono e l'aspetto dell'aforisma che offre un giudizio sommario, tranchant, non argomentato, ma -nondimeno- racconta una verità difficilmente contestabile: le grandi aziende, anche se predicano e promuovono il rispetto dei valori etici e la correttezza al di sopra di tutto, prima o poi, finiscono per girare la testa dall'altra parte, per fingere di non ricordare, di non sapere; il tutto allo scopo di conservare la leadership del mercato.

Lo fanno Apple, Sony, Nokia, Microsoft e HP nei confronti della Foxconn, azienda che conta decine di suicidi tra i suoi lavoratori a causa delle disumane condizioni di lavoro; lo fa la Nestlé servendosi di Archer Daniels Midland e Cargill per la lavorazione delle materie prime quando sa benissimo che le due multinazionali sfruttano lavoro minorile e riducono i lavoratori in schiavitù. Lo fanno praticamente tutte le grandi aziende del pianeta: da Nike a Coca Cola, da Mac Donald a Bayern. Eppure parliamo di aziende che hanno un settore di Corporate (o Social) Responsability, ma preferiscono servirsene per organizzare chiassose manifestazioni in cui -magari- si piantano alberi nei cortili delle scuole o si educano i bambini alla corretta alimentazione, piuttosto che per modificare in maniera radicale i principi che regolano i loro processi di produzione. Perché una scelta del genere, secondo molti, risulterebbe antieconomica e porterebbe all'impossibilità di continuare a competere all'interno di un mercato di stampo liberista. Fine della discussione.

E a nulla servono le argomentazioni di chi trova intollerabile che per ingozzare (male) di cibo e lusso i bambini occidentali si debbano affamare e schiavizzare i bambini del cosiddetto terzo mondo.

C'è chi la chiama retorica buonista,  c'è chi afferma si tratti di inutili, sentimentali, ridicole, ideologiche sottolineature riguardanti scenari incontrovertibili eppure -di fatto- ciò che li rende incontrovertibili è solo il rifiuto ad agire per il loro rivoltamento.

Google  ad esempio, per un periodo ha tentato un approccio rivoluzionario in tal senso e -sul finire del 2009- sembrava fermamente intenzionata a boicottare la Cina e le sue pratiche censorie. Certo, il casus belli in quell'occasione fu il sospetto coinvolgimento del governo di Pechino nell'hackeraggio di alcune caselle Gmail collegate a possibili contestatori del governo, e l'azienda di Mountain View -aggredita frontalmente- non poteva fare a meno di alzare la voce sperando di ottenere le scuse di Pechino e almeno la promessa che la cosa non si sarebbe più ripetuta.

Nulla di tutto ciò è avvenuto.

Il governo cinese non si scusò, né tanto meno ammise il suo coinvolgimento nella violazione delle caselle di posta gmail (anzi, lo negò fortemente) e l'azienda di Mountain View si vide costretta a lasciare la Repubblica Popolare, rifiutandosi di fare affari sul suo territorio (anche se -in realtà- il suddetto abbandono non è mai stato "completo").

E poi? Cos'è successo ai rapporti tra Google e Cina in questi due anni?

Dopo aver lanciato pesantissime strali all'indirizzo della Repubblica Popolare al suon di ripetuti mai più con Pechino, ora Google si vede costretta a un poco onorevole dietro front in nome della competitività. Come potrebbe un'azienda come quella di Mountain View -in un ottica di guadagno- rinunciare a una quota di mercato come quella cinese? Come potrebbe decidere di voltare le spalle a ben mezzo miliardo di utenti (queste le stime aggiornate sulla fruizione del web in Cina)?

La scelta di coscienza esiste sempre ma avrebbe delle conseguenze, magari non catastrofiche, di sicuro d'un certo peso.

Il punto è che se nessuno dei suoi competitor rinuncia alla Cina, neppure Google lo farà mai, pena l'estromissione dal più grande mercato del mondo e il conseguente arretramento sul piano della leadership; quello cinese -infatti- è uno dei pochi mercati che, con tutto probabilità, ha la possibilità di restare florido per diversi anni ancora. L'unico mezzo perché il boicottaggio del governo di Pechino sia efficiente sarebbe quello di istituire una sorta di cartello transnazionale tra le grandi aziende, ma anche in questo caso una nazione che conta oltre un miliardo di abitanti, ricchezza e materie prime avrebbe tutte le carte in regola per cavarsela senza bisogno di nessuno.

E allora ecco che non resta che tentare un altro tipo di ragionamento, un ragionamento di tono opposto a quello fin qui considerato: la Cina, in fondo, è poi così diversa dai molti degli altri paesi con cui BigG fa affari? E se non lo è, allora che senso ha riservarle un astio particolare?

D'altronde è pur vero che se anche la Cina è diventata il simbolo della censura, dell'antidemocrazia, della repressione sociale e culturale, altre nazioni sul cui territorio Google è più che mai attiva non sono da meno. In fondo, nemmeno gli storici nemici della Cina -USA su tutti- sembrano più avere alcun problema a trattare sia politicamente che economicamente con il governo di Pechino, e allora perché se certe remore non le ha uno stato dovrebbe averle un'azienda?

Pechino viene lasciata assolutamente libera di gestire i suoi affari come meglio crede, senza neanche più la noia (un tempo molto frequente) del sentirsi giudicata da un occidente che ha da sempre l'abitudine di scovare le pagliuzze e ignorare le travi. E allora di cosa si parla quando si segnala l'incoerenza, l'ipocrisia di BigG? In che modo una compagnia -per quanto enorme- può rendere significativo il proprio boicotaggio se il resto nel mondo è in ossequiosa ammirazione del miracolo cinese?

E dev'essere proprio in seguito a un ragionamento di questo tono, corredato da una semplicissima ma pesante valutazione di convenienza economica, che Google ha deciso di tornare in Cina, riattivare la sede di Pechino, assumere nuovo personale e dare vita -senza troppo clamore- al reboot dell'esperienza cinese.

Nonostante la chiarezza dello scenario, però, il numero uno di Google-Asia, Daniele Alegre, cerca di minimizzare l'evidente marcia indietro di Mountain View specificando che BigG non intende occuparsi di ricerca sul web (campo in cui per anni Google -come tutte le altre aziende del settore- è scesa a patti con i sistemi di censura e filtraggio dei risultati voluti dal governo) ma di servizi ai consumatori; c'è da considerare -infatti- che in Cina il volume di utenza dell'e-commerce ammonta a duecento milioni di persone.

Ma non è tutto, Google è più che intenzionata a penetrare il mercato cinese anche con Android e, in particolare, con le applicazioni dell'Android Market. Ma quest'ultima sfida presenta non poche difficoltà, proprio alla luce delle pratiche censorie attive nella Repubblica Popolare.

In ogni caso, al di là dell'intenzione di non puntare sulla ricerca online, campo in cui più volte Google e il governo cinese si sono trovate a guerreggiare, il punto è che una delle pochissime aziende che aveva avuto il coraggio di voltare le spalle  -per ragioni etiche- al mercato più promettente del mondo, alla fine ha fatto marcia indietro. E questo significa (in buona sostanza) che il governo di Pechino può permettersi tutto.

Può permettersi l'invasione della privacy, può permettersi di nascondere informazioni, può permettersi di incarcerare dissidenti per ragioni esclusivamente ideologiche senza dover rendere conto a chicchessia. Certo, non sono gli unici a poter fare il bello e il cattivo tempo senza ricevere neppure una tirata d'orecchi, ma dire che lo fanno anche altri non migliora di una virgola la situazione. Il punto è che, per quanto si tenti di mostrarsi gradassi, nessuno stato e nessun'azienda, alla fine, sente di potersi permettere di tenere il broncio alla Cina per molto tempo. E questo non cambierà, non finché il criterio principe d'ogni valutazione delle azioni umane sarà la convenienza economica.

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