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Ho scritto una battuta su Facebook e mi hanno bannata per una settimana

Non solo Zerocalcare, il problema del ban selvaggio di Facebook colpisce tutti, prima o poi. Io sono stata bloccata tre volte dai guardiani del social in blu e posso sostenere con certezza una cosa: a Facebook hanno seri problemi con la comprensione dell’ironia.
A cura di Charlotte Matteini
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Zerocalcare è stato solo l'ultimo di una lunga serie di autori bannati senza appello da Facebook. Aveva postato un contenuto relativo a un evento di commemorazione per la morte di Carlo Giuliani e, a furia di ricevere segnalazioni dai detrattori, la sua pagina è stata momentaneamente oscurata e il contenuto rimosso. A me, per esempio, è successo tre volte di incappare nel bannaggio selvaggio di Facebook. La prima volta, una battuta sulle polemiche che in quel periodo stavano imperversando relative all'ospitata di Elton John a Sanremo mi costò 24 ore di allontanamento: "È un cantante con quarant'anni di onorata carriera, ma in Italia la gente pensa che Elton John sia stato invitato a Sanremo per farci diventare tutti froci". È evidente che stessi bonariamente prendendo in giro chi sosteneva che l'intervista a Elton John potesse in qualche modo essere stata organizzata per manipolare l'opinione pubblica, come se Elton John non fosse un famosissimo cantante, ancor prima che un genitore adottivo di orientamento omosessuale. L'ironia non venne colta, evidentemente quel "froci" meritava una sanzione. E così, in effetti, fu.

La seconda volta che Facebook decise di manganellarmi virtualmente, bannandomi per 3 giorni, avevo invece avuto l'adire di scrivere una mia personale considerazione sulle persone lente. Per spiegare un attimo il contesto, devo premettere una cosa: sono milanese, come tutte le milanesi sono abituata a correre, tutto deve essere sbrigato velocemente, il più velocemente possibile. In quanto milanese, io non tollero la lentezza. Premesso questo, quell'infausto 17 marzo del 2016 scrissi un post contro le persone lente, ammettendo di essere un po' razzista e augurandomi non venissero più turisti lenti a passeggiare nella mia città. Qualsiasi individuo dotato di un briciolo di senso dell'ironia avrebbe capito che non stavo auspicando al ripristino di una sorta di regime nazista 2.0 contro le persone lente, ma che stavo semplicemente facendo una battuta su una caratteristica che personalmente mal sopporto. Niente, anche in quel caso Facebook decise che era necessario educarmi, censurando il mio post e disattivandomi il profilo per tre giorni.

Il mio terzo ban, questa volta durato un'intera lunghissima settimana, è stato invece comminato a causa di un articolo scritto fingendo di essere una razzista. Nel post scritto per introdurlo, misi un estratto del pezzo, che effettivamente a prima vista poteva sembrare un incitamento al razzismo o alla violenza, ma che sarebbe bastato leggere l'articolo per intero per rendersi conto che, paradossalmente, i commenti utilizzati per costruire quel soliloquio io li avevo trovati pubblicati non solo sui forum, ma anche sullo stesso Facebook, a commento di articoli pubblicati da alcune testate di cui non farò il nome. L'articolo artistico mi è costato una settimana di allontanamento coatto imposto da Facebook, più un esaurimento nervoso causato dall'allontanamento coatto immeritato. Un particolare divertente: lo stesso post e lo stesso articolo che mi sono costati una settimana di ban provenivano dalla mia pagina pubblica e i contenuti oggetto della procedura d'infrazione sono lì rimasti pubblicati per una settimana, finché non mi sono auto-segnalata da sola.

A differenza delle altre volte, al terzo ban ho cercato in tutte le maniere di protestare. Ho scritto mail, suppliche, tweet, lettere minatorie in carta bollata. Niente, nada, nisba. Mark Zuckerberg non ha voluto ascoltarmi, mi sono trovata a combattere con una certa Valentina che alle mie domande continuava a rispondermi "Roma per toma", come si suol dire dalle mie parti. Una conversazione tra sordomuti, sembrava: "Che tempo fa oggi? Ho 20 anni". Niente da fare, Valentina proprio non riusciva a comprendere quale fosse il mio problema e alle mie richieste replicava fornendomi risposte che nulla c'entravano con la questione da me posta. Insomma, alla fine mi sono arresa e ho atteso che il mio profilo venisse riattivato dai guardiani di Facebook. Come fosse una sorta di fidanzata psicopatica, Facebook decide di bloccarti il profilo senza sentirsi in dovere di darti una spiegazione chiara, tanto meno ti dà la possibilità di presentare delle controdeduzioni. "Hai violato i nostri standard". Bene, quale in particolare? Niente, non è dato sapere. "Posso spiegare, non l'ho fatto apposta. Stavo scherzando, lo giuro". Non interessa nulla agli omini di Facebook, le tue suppliche te le tieni per te. Avresti dovuto pensarci prima, ora ti becchi la sacrosanta sospensione che ti meriti. Ormai vivo nel terrore di scrivere un post più satirico del dovuto, ho paura di beccarmi ben due settimane di sospensione dall'Inquisizione di Menlo Park a causa di un'innocente battuta.

Insomma, le persone che lavorano per il famoso "Social in blu", a quanto pare, hanno evidenti problemi di comprensione del testo: ti azzardi a scrivere una battuta più sagace del normale? Se qualche utente ti segnala, sei finito. Il ban scatta in automatico. E hai voglia a spiegare che no, non sei un omofobo/razzista/membro del Ku Klux Klan/potenziale serial killer di ex fidanzati, agli omini che si occupano di passare in rassegna le centinaia di migliaia di segnalazioni che ogni giorno gli utenti senza senso dell'ironia inoltrano ai moderatori del social network di Menlo Park. Ma non è che ai poveri dipendenti di Facebook non interessi il dramma umano che ti costringe a vivere senza poter interagire con i tuoi amici virtuali per ore, giorni o addirittura settimane. Il problema è che spesso le persone che sono tenute ad analizzare i post segnalati non sono madrelingua e si trovano a dover leggere e capire dei testi che se tradotti letteralmente, difficile che possano essere percepiti per ciò che realmente sono, ovvero delle innocue battute, più o meno politically incorrect. Poi, però, navigando trovi post che davvero violano gli standard della comunità di Facebook, eppure nonostante le segnalazioni rimangono lì. Oppure ancora, come sollevato da Vittorio Sgarbi qualche settimana fa, non si capisce per quale motivo il quadro "L'origine du monde" di Gustave Courbet venga bannato senza appello dal social perché contenente immagini di nudo, mentre i video – diciamocelo – alquanto scabrosi pubblicati da Andrea Dipré non subiscano alcun tipo di censura. Insomma, qual è il vero metro di giudizio? Mi piacerebbe davvero comprenderlo, francamente.

Come spiegato da numerose testate, tra cui il The Guardian e la rivista Gawker, a occuparsi della gestione delle segnalazioni sarebbero dei lavoratori precari non direttamente assunti da Facebook, ma dei ragazzi impiegati in outsourcing che spesso non vivono nemmeno nel paese da cui provengono i post potenzialmente censurabili, e che pertanto difficilmente comprendono non solo l'ironia, il sarcasmo e l'umorismo, ma anche il contesto culturale in cui certe battute vengono espresse. Se così davvero fosse, effettivamente si potrebbe spiegare l'esistenza di questo schizofrenico doppiopesismo. Io ci rido su, pensando alle mie scorribande degli ultimi mesi, ma riflettendoci in maniera più approfondita mi rendo conto di quanto questo modus operandi costituisca di fatto un vero e proprio rischio per la libertà di espressione degli utenti, che rischiano di subire la censura del proprio pensiero in maniera del tutto immotivata e inappellabile.

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