I’m feeling lucky: Google-mania nel libro confessione di Douglas Edwards
"I'm feeling lucky" non è un libro sugli oscuri segreti aziendali della compagnia di Mountain View, né un libro su chi ha fregato chi, su progetti rubati e torti subiti in silenzio da qualcuno che poi prova a vendicarsi rendendo pubblici vecchi scheletri rinchiusi in armadi ammuffiti, "I'm feeling lucky" è un libro -a tratti- sociologico, che racconta di cosa significhi lavorare in una compagnia che cresce a ritmi sfrenati e che punta a conquistare il mercato per mezzo di visioni, idee, creazioni innovative ma che -parallelamente- conosce l'enormità della sfida e ha assoluta fiducia nelle proprie potenzialità… Lavorare in un'azienda del genere, spesso, non lascia spazio a nient'altro: amici, famiglia, hobbies… Tutto scompare di fronte al desiderio di arrivare che si fa forte della convinzione di trovarsi nel luogo (professionalmente) più esaltante dell'intero pianeta. Qualcuno finisce con l'assuefarsi all'adrenalina tipica della fase start-up, altri diventano incapaci di abbandonare la nave, anche se -in teoria- non avrebbero più bisogno di lavorare, anche quando sono anziani e la famiglia li reclama, anche quando arrivano altre proposte. Lavorare in un'azienda come Google -insomma- può diventare un'esperienza totalizzante, al confine con la patologia.
È da questa prospettiva che l'impiegato numero 59 Douglas Edwards racconta i suoi cinque anni (e più) di vita in Google.
Naturalmente anche Edwards, come tutti gli altri, ha dovuto immergersi nell'atmosfera Google (era pur sempre in brand manager della compagnia) ma a giudicare dalla lucidità con cui è stato in grado di raccontare le dinamiche sociali del micro-universo BigG non ha mai perso di vista la sua identità o, come minimo, è stato in grado di recuperarla a pieno, conservando solo il meglio dell'esperienza, senza pesanti strascichi psicologici, ed è anche per questa ragione che il libro si chiama I'm feeling lucky.
Ma la riappropriazione di sé è tutt'altro che scontata in casi come questo. Come lo stesso Edwards sostiene infatti, le grandi start-up, specie quelle con le più rosee prospettive di successo hanno qualità simili a veri e propri culti religiosi e qualcuno –è il caso di Apple– mantiene quelle qualità ben oltre la fase di start-up. A questo proposito, c'è una dichiarazione di Edward estremamente esemplificativa: "Tutto quello che ho posseduto per un po' aveva il logo di Google: ombrelloni, asciugamani, magliette, boxer… Era su ogni penna, su ogni pezzo di carta. Google, in qualche modo, prese in consegna il mio senso d'identità. Ed è stato peggio per le persone che arrivavano direttamente dal college".
Esiste, però, un altro aspetto sul quale l'ex brand manager di Google focalizza il suo racconto ed è, da un lato, l'enorme fiducia (decisamente al limite della presunzione) che Page e Brin avevano nelle loro possibilità e nel loro progetto, erano assolutamente certi che il mercato si sarebbe inginocchiato davanti al loro algoritmo e quando gli è capitato di essere ignorati dalla classe politica USA non riuscivano a capacitarsi di come fosse possibile; dall'altro lato Edwards evidenzia come Page e Brin fossero convinti che la tecnica potesse averla vinta su tutto.
Puntavano sull'ingegneria, sull'assoluta razionalità, sulla qualità, sull'efficienza, dimenticando -spesso- che l'universo è fatto anche di relazioni e che queste non rispondono ad alcun algoritmo. Ecco perché, sostiene l'ex brand manager, non sono riusciti a prevedere l'avvento dei social network e non hanno saputo affrontare la sfida cinese.
Con il tempo, ovviamente, al profilo diplomatico della vita aziendale è stata data molta più importanza. Oggi Google finanzia entrambi i partiti USA e si è dotata di uno staff impegnato esclusivamente nella cura delle relazioni politiche, ma ci è voluto del tempo perché Page e Brin abbandonassero la convinzione che l'ingegneria bastasse a se stessa.