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Il docente Michele Mezza: “Per vincere la pandemia ci servono i dati di Google e Facebook”

Nel suo ultimo libro l’esperto di tecnologia e nuovi media afferma la necessità di combattere Covid-19 utilizzando i dati predittivi, che permettono di anticipare dove e quando nasceranno nuovi focolai. Le informazioni dalle quali partire per ottenerli sono però nelle mani di multinazionali come Facebook e Google, e vanno considerate come un bene pubblico.
A cura di Lorenzo Longhitano
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La pandemia di coronavirus ha messo i governi di tutto il mondo di fronte a una malattia che si diffonde con rapidità sorprendente, capace di superare in velocità qualunque sistema di tracciamento le sia stato contrapposto finora. Non stupisce dunque che sempre più esperti abbiano proposto di affidare le sorti della lotta al coronavirus al potere predittivo dei dati – ovvero ad algoritmi che analizzano i comportamenti delle persone online e offline, e che in questo marasma di informazioni possono trovare correlazioni che rivelano dove e quando si svilupperanno i prossimi focolai. Il problema dietro a questo approccio estremamente promettente è solo uno: che la maggior parte di queste informazioni sono nelle mani di multinazionali private come Google e Facebook e non vengono condivisi adeguatamente. Sono questi alcuni dei temi trattati ne "Il Contagio dell'algoritmo, Le idi di marzo della pandemia", l'ultimo libro del giornalista e docente Michele Mezza, che ne ha parlato con Fanpage.it.

Da cosa nasce questo libro, chi è il protagonista?

È un libro sul potere che si sta delineando in questa terribile congiuntura della pandemia,  un potere che nasce dalla convergenza dei due unici attori reali sulla scena: uno è il virus e l'altro è la Rete, il sistema di algoritmizzazione che avvolge esattamente la stessa parte del pianeta coinvolta dalla pandemia. Dal confronto-scontro tra questi due sistemi sta emergendo un unuovo modello sociale fatto di distanziamento e contact tracing, che poi attraverso la Rete diventano capacità di calcolo e di profilazione da parte di pochi centri proprietari degli algoritmi.

Proprio in questi giorni sta affiorando sta tenendo banco la questione dell'R con t come indicatore della necessità di contenimento della pandemia in regioni e città. Ebbene queste tipologie di dati che noi stiamo usando sono inefficenti e inconsistenti e – come ha avuto modo di dire il professor Crisanti – inattendibili. I veri dati sono quelli immagazzinati ogni giorno da Google e Facebook in quantità industriali: sono i dati predittivi, attravetso i quali si può anticipare l'incubazione del virus; senza quei dati non si è in grado di contrastare la pandemia, ha detto Crisanti alla Camera. È da qui che bisogna partire: rendere i dati di Facebook e Google un bene comune.

In quale modo serve rapportarsi con soggetti sovranazionali come Google e Facebook?

Come tutti i giganti, Google e Facebook hanno comunque i piedi poggiati sul terreno: il fatturato lo realizzano nelle nostre città, nei nostri ospedali, nelle nostre università e nei nostri giornali. Sulla base di questo si dovrebbe definire un quadro normativo che costringa i giganti a negoziare con soggetti intermedi che rappresentano i loro utenti. Questo sta già in parte avvenendo: dall'UE è stata proposta una multa di 28 miliardi di dollari ad Amazon per un uso scorretto, unilaterale, autoritario dei dati di profilazione dei venditori. Si stanno creando le condizioni per avviare con questi sogetti un processo negoziale proprio lì dove producono fatturato, come nelle smart city, nelle università e tra le categorie professionali. Esistono modelli che permettono di rendere più trasparente e condiviso il potere di calcolo immagazzinato da queste aziende, e vanno sfruttati.

Michele Mezza
Michele Mezza

Come si può fare?

Occorre innanzitutto ripensare il concetto stesso di accumulo dei dati, smettendo ad esempio di ignorare che gran parte di questo accumulo è illecito: non è autorizzato neanche da quel frettoloso assenso che diamo quando autorizziamo la raccolta dei cookie e l'attività di profilazione. Le fasi successive come la ricombinazione e la commercializzazione di questi dati sono tutte attività illecite, non previste né normate, né autorizzate. Sfruttando questo stato di cose Google, Facebook e la Silicon Valley hanno eliminato l'unico elemento che permetteva al capitalismo di giustificare il suo arricchimento: il rischio. Questi soggetti non rischiano più niente, perché sanno tutto. Si tratta di un nodo che va affrontato, non necessariamente per una questione ideologica, ma di mercato: per impedire che l'innovazione si fermi – dal momento che migliaia di aziende vengono periodicamente distrutte dal monopolio di Google e Facebook.

È un tema importante che però non ha mai fatto molto presa sulle persone: la pandemia servire in questo senso?

Non per niente nel libro pongo una domanda provocatoria: "quanti morti ci vogliono prima di arrivare a questo punto", intendendo evidentemente questo. Oggi i dati degli esperti dicono che il vaccino – ammesso e non concesso che si confermi efficiente e che possa arrivare nel corso dell'anno prossimo – avrà un periodo di somministrazione e di risomministrazione che potrebbe durare anche 5-6 anni; nel frattempo dovremo mantenere inalterate le misure precauzionali come il distanziamento sociale, e dunque sarà fondamentale prevedere la diffusione del virus per evitare che si ripresenti inaspettatamente; non lo potremo fare limitandoci a fotografare quello che è avvenuto ieri come avviene con gli attuali sistemi di contact tracing.

Del resto il potere che deriva dalla raccolta dei dati rastrellati da questi soggetti non può rimanere confiscato in poche mani; è un bene comune, perché ottenuto a partire da materiale che non è di loro proprietà. Non per niente l'Unione Europea sta elaborando un regolamento che impone a chiunque profili utenti di rendere trasparente il processo di profilazione: tu lo puoi fare, ma io devo vedere come lo fai, quando lo fai e perché lo fai. È un primo passo.

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