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La storia dell’americana che ha sfidato Google e i suoi CAPTCHA (e ha perso)

Una cittadina americana ha intentato una causa contro Google per farsi pagare per tutti i captcha inseriti negli anni, considerandoli come un lavoro non retribuito. Pochi giorni fa il giudice ha respinto la causa, ecco perché.
A cura di Daniele Gambetta
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google captcha

Vi siete mai chiesti perché spesso, quando dobbiamo accedere ad un servizio di Google o di un altro sito, dobbiamo inserire due parole, di cui una leggendo il testo in una sorta di scannerizzazione? Si chiama CAPTCHA ed è un metodo spesso utilizzato per verificare che il richiedente del servizio sia un essere umano e non un programma. I programmi, infatti, fanno molta fatica a riconoscere un testo se questo compare distorto, oppure in una foto o in una scannerizzazione. Tuttavia, è possibile creare programmi che sappiano leggere testi scannerizzati, ma per farlo bisogna prima “insegnargli” a leggere. È proprio questo che facciamo quando scriviamo il secondo captcha: insegniamo ai programmi di Google a leggere un testo. Mentre infatti il primo captcha (solitamente è quello più distorto) serve effettivamente a riconoscere che siamo persone, inserendo il secondo permettiamo a Google di aumentare il proprio database di informazioni dal quale possono attingere i programmi di lettura che consentono la digitalizzazione dei libri, come ad esempio in Google Books.

Consapevole di questo, circa un anno fa, Gabriela Rajas-Lozano realizza di essere manodopera sfruttata a costo zero da parte del colosso di Silicon Valley e pretende una remunerazione per tutti i captcha inseriti.
È così che nel gennaio del 2015 intenta una causa contro Google, considerandosi al pari di un lavoratore non pagato. Purtroppo per lei, però, il 3 febbraio di quest'anno il Tribunale della California ha respinto le accuse.
Il giudice distrettuale Jacqueline Corley ha infatti deciso che Gabriela non ha diritto ad alcun risarcimento o retribuzione in quanto al momento di inserire il captcha era consapevole di cosa questo comportasse.
“Inoltre” – aggiunge il giudice – “la trascrizione del captcha data dall'utente favorisce l'utilità di altri servizi gratuiti offerti da Google come Google Maps o Google Books”. Gabriela dunque avrebbe dimenticato di considerare questi benefici ottenuti tramite la semplice trascrizione di una parola.

Nonostante la decisione finale, questo episodio offre interessanti possibilità di riflessione sui cambiamenti che il Web 2.0 sta portando nelle forme di lavoro e di guadagno. Il metodo usato da Google per creare profitto dal lavoro inconsapevole di milioni di utenti è ormai la prassi tra i grandi social. Facebook stesso guadagna dalla messa a valore dei dati che – volontariamente – noi introduciamo dalla nostra bacheca. Dati che vengono venduti ad aziende e compagnie di marketing.

Qualcuno potrebbe obiettare che sia inappropriato chiamare “lavoro” e “sfruttamento” il tempo che un utente passa su facebook condividendo articoli e/o gattini, ed in parte avrebbe ragione. Il Web, con le sue forme di produzione, ha fatto decadere le solite definizioni economiche alle quali eravamo abituati. È vero che sarebbe assurdo paragonare un utente Facebook ad un operaio delle fabbriche di Foxconn, ma se per “lavoro” intendiamo “produrre valore” allora anche l'inserimento di captcha è un lavoro: considerando che ogni giorno vengono inseriti dagli utenti più di 60 milioni di captcha, basti pensare a quanto un'azienda come Google dovrebbe spendere per pagare dipendenti che svolgano lo stesso compito. Ed è grazie a questi paradossi, queste nuove forme di “lavoro volontario”, che hanno potuto erigersi colossi come Facebook o Google, colossi che oggi detengono un oligopolio nel mondo della tecnologia e quindi dell'informazione tale da renderli capaci di dettare le regole di questa economia.

Chiedere a Facebook di pagarci una percentuale sul guadagno sarebbe un'idea grottesca oltre che perdente, dal momento che quando creiamo un account dobbiamo accettare le condizioni imposte dal servizio (sì, quella lunga pagina di termini che tutti accettiamo senza leggere). Al più, perché no, si potrebbero sfruttare questi nuovi mezzi di produzione, studiandoli, affrontandoli e immaginando piattaforme collaborative che utilizzando le forme di finanziamento del Web 2.0 possano mettere a frutto le conoscenze garantendo una distribuzione di reddito.

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