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Se offendi qualcuno in uno stato di WhatsApp rischi una condanna: la sentrenza del tribunale

Una recente decisione della Corte di Cassazione ha decretato come gli insulti relativi a una persona e diffusi su WhatsApp per mezzo degli Stati costituiscono una vera e propria diffamazione ai danni del soggetto. La sentenza ha condannato l’imputato nel caso in questione al pagamento di un’ammenda da 3.000 euro.
A cura di Lorenzo Longhitano
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Social network e piattaforme di messaggistica sono luoghi virtuali dove molti si sentono liberi di potersi esprimere senza conseguenze, ma la realtà non è sempre così. Lo dimostra una recente decisione della Corte di Cassazione, che ha decretato come gli insulti relativi a una persona e diffusi su WhatsApp per mezzo della funzione stato costituiscono una vera e propria diffamazione ai danni del soggetto citato. La sentenza ha condannato l'imputato nel caso in questione al pagamento di un'ammenda da 3.000 euro.

L'imputato aveva scritto su WhatsApp frasi offensive e lesive della reputazione di una sua conoscente, senza però limitarsi a inviarle in una chat ma pubblicandole come uno stato. La particolare funzione dell'app di messaggistica è simile alle Storie di Instagram: mantiene il contenuto pubblicato visibile per 24 ore e alla portata di una platea ben più ampia di quella di una singola chat o di una conversazione di gruppo. In caso la privacy sia impostata a zero, lo Stato è teoricamente visibile a chiunque decida di aggiungere il numero di telefono del mittente alla propria rubrica; se le protezioni in fatto di privacy sono attivate, lo Stato resta comunque a disposizione di tutti coloro che il mittente ha nella propria lista di numeri WhatsApp.

Per l'uomo, i contatti della donna potrebbero non aver avuto installata l'app di messaggistica – sostanzialmente ubiqua e con più di 2 miliardi di utenti al mondo; per i giudici invece, per circostanziare la diffusione delle parole rivolte alla sola vittima sarebbe bastato mandarle un messaggio diretto. La natura pubblica del contenuto inviato online insomma è proprio uno degli aspetti che ha spinto la Cassazione alla sentenza n. 33219/2021, nella quale viene confermata la condanna inflitta all'imputato dalla corte d'Appello di Caltanissetta che aveva in gestione il caso.

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