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OpenLeaks: nasce la versione politically-correct di Wikileaks

Daniel Domscheit-Berg, ex braccio destro di Assange, fonda Openleaks; tentativo di mediazione tra il diritto all’informazione e le preoccupazioni per la sicurezza nazionale.
A cura di Anna Coluccino
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Le mirabolanti avventure di Julian Assange stanno monopolizzando l'informazione da due settimane ormai, ed era naturale che qualcuno, prima o poi, provasse a sfruttare l'onda di attenzione mediatica concessa a Wikileaks per lanciare un servizio in grado di mettere d'accordo tutti: sia i difensori della libertà di informazione, che le istituzioni diplomatiche dei vari paesi, USA in testa. A provarci è, non a caso, Daniel Domscheit-Berg, ex braccio destro di Assange, fuoriuscito da Wikileaks lo scorso settembre a causa forti divergenze di opinione con la leadership dell'hacker australiano. Domscheit-Berg, infatti, considera troppo autoritario il modo in cui Assange gestisce Wikileaks, e ritiene possa esistere un modo per difendere il diritto di cronaca senza "mettere in pericolo" la sicurezza nazionale.

Sulla scorta di questa convinzione, Domscheit-Berg ha fondato OpenLeaks un sito in cui i dispacci diplomatici non vengono pubblicati integralmente e senza alcuna rielaborazione, ma sono sottoposti a verifica incrociata attraverso la collaborazione con altri media d'informazione, per poi subire una revisione tesa a presentare i documenti nella giusta prospettiva. In questo modo, OpenLeaks spera di trovare una soluzione alla critica che più spesso viene mossa a Wikileaks, ovvero quella di mettere a repentaglio le vite delle persone coinvolte nelle "rivelazioni". Domscheit-Berg ha recentemente dichiarato che pubblicando indiscriminatamente dei documenti riguardanti la guerra in Afghanistan, Assange si è comportato come "un imperatore o un mercante di schiavi".

Il livore che sottende queste dichiarazioni è evidente, eppure c'è da star certi che la posizione espressa da Domscheit-Berg troverà non pochi sostenitori. L'atteggiamento mediano rispetto alla guerra tra libertà di informazione e responsabilità nazionale, infatti, è di gran lunga quello più diffuso tra la gente comune (ovvero tra coloro che non si sentono direttamente coinvolti nel conflitto) e consiste nell'accordare parte della ragione ad entrambi gli schieramenti, senza -in realtà- prendere una reale posizione a favore dell'uno o dell'altro. Questo significa che, nella sostanza, si condanna il modo ma non il gesto in sé, come se le due cose potessero -davvero- essere separate. Come se le modalità prescelte per perseguire uno scopo, potessero prescindere dal definire il fine stesso dell'operazione. Esistono, infatti, maniere diverse per rivendicare -ad esempio- il diritto alla salute, ma il punto è che se di diritto si tratta, esso non dovrebbe presentare eccezioni e, per tanto, divide il mondo in due blocchi: chi afferma il diritto e chi lo nega in nome di una qualche "ragion di stato".

Non stupiamoci, allora, se gli strenui sostenitori della libertà di informazione non accoglieranno positivamente questa novità, e non saranno disposti a cedere terreno per una risoluzione diplomatica. La rappresaglia capitanata dal gruppo Operation Payback continuerà a mietere vittime, così come le istituzioni nazionali e sovranazionali resteranno ferme nella convinzione che esistano notizie che in nessun caso e in nessuna forma devono essere portate all'attenzione dei civili.

Le cose, a volte, sono davvero o bianche o nere.

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