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Per la Procura di Roma insultare sui social non è reato ma solo uno sfogo

Nella richiesta di archiviazione di una denuncia per diffamazione, la Procura di Roma derubrica gli insulti a mezzo social a un modo efficace per sfogare rabbia e frustrazione. La tesi è che le ingiurie postate dagli utenti su Facebook e altre piattaforme godano di scarsa credibilità e non vengano presi sul serio dalla comunità.
A cura di Lorenzo Longhitano
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In un'epoca in cui interagiamo e ci informiamo a mezzo social come mai prima d'ora, secondo la Procura di Roma gli insulti su Facebook, Twitter e compagnia non costituiscono un potenziale illecito ma un efficace modo per "sfogare la propria rabbia e frustrazione". È così — con una richiesta di archiviazione — che nella giornata di ieri si è infatti chiusa la vicenda di una ragazza romana, che ha denunciato per diffamazione un amico per averla pesantemente e ripetutamente insultata su Facebook.

A fronte della denuncia, la Procura ha deciso in questi giorni di accantonare il procedimento poiché "quanto scritto su Facebook non ha portata diffamatoria agli occhi di terzi". La motivazione alla base della decisione sarebbe che "sui social accede un numero illimitato di persone, appartenenti a tutte le classi sociali e livelli culturali che scrivono qualsiasi commento, pensiero, critica, utilizzando anche termini scurrili e denigratori che, in astratto, possono integrare il reato, ma che, in concreto, sono privi di offensività".

Si tratta di un ragionamento che può avere un senso logico per chi l'ha formulato, ma che è in contraddizione con provvedimenti precedenti e che non prende in considerazione diversi aspetti delle dinamiche di interazione sui social network. Intanto non tutti coloro che hanno accesso ai social sono in grado di effettuare la distinzione tra sfogo personale e informazione attendibile. Inoltre, insulti e pratiche diffamatorie possono avere l'effetto — collaterale o intenzionale — di schiacciare la vittima sotto il peso dei commenti di una comunità che interviene con leggerezza sulla questione. Infine il ragionamento non considera la posizione della vittima stessa, che in una situazione simile non può che sentirsi violata, a prescindere dall'attendibilità o meno delle informazioni riportate e dalla tipologia o dalle dimensioni della platea di chi legge gli insulti.

Tanto più che nel caso in questione non si è trattato di semplici affermazioni sconnesse — di per sé già gravi — ma di vere e proprie ricostruzioni con riferimenti a presunti stati personali e familiari della vittima. La prossima mossa ora passa al giudice per le indagini preliminari, che dovrà pronunciarsi sul caso dopo l'opposizione della donna alla richiesta di archiviazione.

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