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Perché le foto che scatti su smartphone saranno sempre più belle

Sensori e obbiettivi in uno smartphone ormai contano relativamente: a fare il lavoro sporco sono i processori sempre più potenti che risiedono al loro interno ed eseguono algoritmi di machine learning capaci di tirare fuori il meglio da raffiche di scatti che l’utente non si accorge nemmeno di avere scattato.
A cura di Lorenzo Longhitano
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iPhone 11

Con l'annuncio dei Pixel 4 di Google, la casa di Mountain View ha confermato indirettamente ciò che molti appassionati di tecnologia già sanno: il futuro della fotografia su smartphone è sempre più nelle mani dell'intelligenza artificiale. Gli ultimi telefoni della società — così come quelli di tutti i concorrenti più agguerriti — ormai non scattano più semplici fotografie e, quando i loro utenti premono il tasto di scatto, l'immagine che ne risulta non è più soltanto il prodotto di ciò che il sensore ha acquisito in una singola frazione di secondo, ma qualcosa di molto diverso.

Le aziende non ne fanno certo un mistero, ma un vanto: durante le presentazioni dei loro prodotti dedicano una buona porzione di tempo a descrivere in parole non sempre comprensibili cosa avviene nel tempo che intercorre tra lo scatto di una foto e la sua memorizzazione — processi di calcolo presi in carico dai chip del telefono che spesso trasformano immagini del tutto dimenticabili in scatti portentosi, e che si possono ascrivere alla categoria della fotografia computazionale.

Si parte dall'ormai affermato HDR — una tecnica nata ben prima degli smartphone ma ormai del tutto automatizzata — che sovrappone le parti meglio esposte di una raffica di foto scattata in un singolo istante per restituire un'immagine finale che un comune sensore non potrebbe catturare con una singola esposizione. In un processo chiamato semantic segmentation le aziende impiegano algoritmi di intelligenza artificiale per distinguere gli elementi di una foto (un cielo, una foresta, un volto) e regolarsi su questi ultimi per capire quale porzione di quale immagine della raffica utilizzare per ottenere i risultati migliori. Nelle modalità notturne messe in campo su alcuni smartphone, la fotocamera acquisisce numerose immagini a breve esposizione per sovrapporle tra loro e restituire una foto ben illuminata ma non mossa — un risultato che qualunque fotografo tradizionale sa essere molto difficile da ottenere. Le modalità ritratto utilizzano le informazioni provenienti da due fotocamere per ottenere una visione di profondità in modo simile a come fa l'occhio umano; in questo modo capiscono qual è il soggetto in primo piano, per poi lasciare che appositi algoritmi lo scontornino sfocando lo sfondo.

Alcuni produttori sperimentano più di altri: il sistema Deep Fusion di Apple del quale molti stanno attendendo l'arrivo promette un numero di modifiche automatiche inedito, mentre il super res zoom di Google può ingrandire immagini mantenendo alta la qualità sfruttando i micromovimenti impartiti allo stabilizzatore ottico per registrare più immagini con prospettive leggermente diverse. Tutte queste tecniche hanno però alla base un denominatore comune: le foto scattate passano tutte attraverso il lavoro di processori e algoritmi di machine learning che fino a pochi anni fa non esistevano o non erano lontanamente in grado di gestire simili carichi di lavoro. In altre parole: restituiscono foto normalmente impossibili da scattare con una fotocamera dalle caratteristiche simili.

È un processo iniziato già pochi anni dopo la diffusione degli smartphone e che non è destinato ad interrompersi a breve: la capacità di catturare immagini mozzafiato è uno degli aspetti che spingono i consumatori a preferire un telefono rispetto a un modello concorrente e i produttori lo sanno. Anche se le caratteristiche dei sensori e degli obbiettivi che è possibile integrare in un telefono non possono più migliorare più di tanto, le immagini che otterremo con il semplice gesto di puntare l'obbiettivo e scattare la foto diventeranno sempre più accattivanti.

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