Sarà che alla fine gli americani sono persone pratiche e il “reality” della “crisi del debito sovrano europeo” sta iniziando a perdere di attrattività visto che si è capito che la crisi non è sostanziale (come sarebbe se non ci fossero più soldi in assoluto) ma almeno in parte formale (a chi tocchi e in che modo sobbarcarsi una parte più o meno ampia dei costi di un intervento risolutivo che resta comunque un costo assolutamente abbordabile nonostante il chiasso mediatico di questi mesi), sarà che la borsa di Wall Street da sempre ha saputo “guardare avanti” più di altri listini, specialmente la piccola Piazza Affari così legata ai vecchi gruppi di potere bancario e industriale (o quel che ne resta) italiani, fatto sta che sul listino americano si notano segnali che parlano di una possibile ripresa del fenomeno delle Ipo (Initial public offering, Offerta pubblica iniziale, ossia quell’operazione attraverso la quale si offrono al pubblico dei risparmiatori i titoli azionari o di debito di un emittente privato).
Almeno in parte il fenomeno è dovuto alla necessità di far quadrare i conti il meglio possibile in vista dell’avvicinarsi della fine dell’anno, o quanto meno offrire una possibilità di “realizzo” per quegli investitori professionali come i fondi di venture capital o di private equity che spesso negli States fanno concorrenza alle banche nel finanziare start up e aziende in fase di sviluppo (per inciso nel solo terzo trimestre di quest’anno il settore del venture capital secondo i dati diffusi da uno studio di Dow Jones VentureSource avrebbe pompato 8,4 miliardi di dollari in 765 nuove start up, livelli ancora lontani dai massimi storici ma in crescita del 29% in termini di investimenti in dollari e dell’8% in termini di numeri di operazioni finanziate rispetto al trimestre precedente, indirizzando in particolare 1,3 miliardi di dollari su 103 nuove imprese legate al settore sempre “caldo” delle tecnologia della comunicazione e dei media sociali), comunque sia Groupon, Zynga, Twitter e altri “bei nomi” del web2.0 a stelle e strisce sembrano intenzionati a non perdere l’occasione di sbarcare sul listino.
I debutti non potranno tuttavia avvenire ai livelli (per molti già “in bolla”) che ci si attendeva ancora a giugno, quando proprio Groupon aveva annunciato di voler raccogliere 750 milioni di dollari con la propria quotazione. In realtà se tutto va bene la società ne porterà a casa, collocando 30 milioni di azioni tra i 16 e i 18 dollari l’una, tra 480 e 540 milioni di dollari (che in caso di esercizio di tutte le opzioni di greenshoe concesse agli “underwriters”, ossia le banche collocatrici, potrebbero salire ad un massimo di 621 milioni), un livello che comunque equivale ad una valutazione complessiva della società tra gli 11 e i 12 miliardi di dollari e scusate se è poco.
In attesa di vedere che numeri annuncerà Zynga, “ufficiosamente” valutato 11,7 miliardi sul circuito Sharepost, lo stesso su cui Facebook è nel frattempo sceso a 75,3 miliardi contro gli 87,1 miliardi sfiorati a inizio agosto scorso e dove Groupon non va oltre i 9,6 miliardi di dollari, vale la pena di notare che il Ceo di Twitter, Dick Costolo, ha affermato che la società del passerotto azzurro vale almeno 8 miliardi di dollari. Su Sharepost Twitter vale un poco meno, 6,9 miliardi, peraltro non distanti dai 7,1 miliardi toccati a inizio agosto. In realtà valutare correttamente un social network ed in particolare Twitter non è semplice, perché (proprio come accaduto a fine anni Novanta con le prime dot.com come Yahoo, eBay o Amazon, ma anche una pletora di nomi ormai caduti nel dimenticatoio) occorre stimare di quanto potrà crescere un business (e quindi fatturato, margini di profitti e utili) che al momento è in parte da inventare, proprio quando la crescita degli utenti è in forte crescita, in particolare grazie al traffico da terminali mobili (secondo Comscore avrebbe superato in agosto i 13,375 milioni di utenti collegati in modalità “mobile”, il 75% in più di un anno prima, contro incrementi del 50% di Facebook, a quota 57,322 milioni di utenti mobili e il +69% di LinkedIn, a 5,482 milioni di utenti mobili).
Twitter sembra poi poter fruttare almeno un ulteriore asso nella manica, la migrazione alla versione più aggiornata del sistema operativo mobile di Apple, l’iOS 5 (quello per intenderci del nuovo iPhone 4S, che nel solo weekend di lancio pare aver venduto oltre 4 milioni di pezzi), così anche se oggi su Twitter ci sono “solo” 100 milioni di utenti, all’incirca quanti ne aveva a marzo LinkedIn prima di debuttare a Wall Street (dove la società è attualmente valutata attorno a 86,4 dollari per azione, pari a 8,3 miliardi di dollari complessivi) e molto meno degli 800 milioni di utenti di “faccialibro” la valutazione di Costolo, per quanto sicuramente di parte, potrebbe non essere al momento troppo distante dal vero, anche se per una valutazione più precisa occorrerebbe sapere (o stimare) quanto vale (o quanto varrà) mediamente in termini di ricavi e profitti ciascun utente per Twitter.
Che poi questo sia o meno il valore che il mercato vorrà riconoscere a Twitter o peggio ancora il valore della società in un futuro più o meno distante una volta quotata, o anche quanti anni ci vorranno per ripagare una simile valutazione sono domande che non possono trovare al momento una risposta. A meno che non abbiate a differenza mia una sfera di cristallo funzionante. Nel caso me la potreste prestare?