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Samsung e la collaborazione con la finta Supreme: com’è potuto succedere?

Il gruppo coreano ha dovuto ritirare l’annuncio di una collaborazione con il brand di streetwear Supreme quando fan e osservatori del brand hanno fatto notare che la partnership in oggetto riguardava in realtà un’azienda italiana con sede a Barletta. Lo scivolone di Samsung però è il frutto di una serie di fattori.
A cura di Lorenzo Longhitano
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In questi giorni la coreana Samsung è incappata in uno scivolone singolare: durante il lancio del suo Galaxy A8s in Cina ha annunciato una collaborazione con il brand di abbigliamento Supreme — un genere di partnership come se ne vedono molte nel mondo dell'elettronica di consumo, se non fosse per un particolare: la Supreme con la quale Samsung ha stretto la sua alleanza non è l'autentica azienda di streetwear Newyorkese apprezzata in tutto il mondo di streetwear, ma una gemella italiana con sede a Barletta che da anni vive alle spalle dell'originale proponendone prodotti simili in tutto e per tutto. Dopo essersi attirata critiche, lamentele e sbeffeggiamenti in Rete, Samsung si è prontamente tirata indietro dall'affare, non senza però che i riflettori tornassero puntati su Supreme Italia e sulla vicenda paradossale che vede le due aziende contrapposte da anni.

Alla base dell'esistenza di Supreme Italia c'è il fatto che Supreme non ha registrato in tempo il proprio marchio nel nostro territorio. La situazione ha dato modo ai responsabili dell'azienda pugliese di riservarsi per primi questo diritto, generando inevitabilmente una contrapposizione tra le due realtà che ha dato luogo a una controversia legale in atto da tempo ma che attualmente non vieta al gruppo italiano di proseguire con le proprie attività. Posto dunque che fino a ulteriori sviluppi l'azienda italiana opera in un regime di legalità, resta da capire come abbia fatto effettivamente a sopravvivere fino ad ora pur proponendo prodotti così simili all'originale.

Al quesito ha provato a rispondere già due anni fa un pezzo di Nssmag, additando principalmente di una disinformazione e di una mancanza di interesse diffusi nell'ambiente. Da una parte — riferiscono gli operatori del settore interpellati dal magazine — ci sono i consumatori finali, che riconoscono il brand per via della specificità estetica del marchio ma non hanno idea di quale sia la storia del gruppo, che conta una manciata di negozi in tutto il mondo. Dall'altra c'è una parte del mondo dei rivenditori ben felice di campare su questo equivoco per motivazioni economiche.

In una ipotetica scala di consapevolezza sulla questione Samsung potrebbe porsi a metà strada perché, da come si è svolta la vicenda, sembra che il produttore di smartphone fosse per lo meno a conoscenza della natura separata delle due aziende. In un post su Weibo ora rimosso, il digital marketing manager Leo Lau aveva infatti affermato che la collaborazione annunciata da Samsung era con "Supreme italia, e non con Supreme NYC", per un motivo semplice: "Supreme NYC non dispone dell'autorizzazione a vendere prodotti o aprire negozi in Cina, mentre Supreme Italia ha ottenuto questi diritti per tutta l'area asiatica, Giappone escluso". L'affermazione lascia pensare a uno scivolone semi-inconsapevole, nel quale il gruppo ha scelto di collaborare con l'azienda che poteva soddisfare i suoi interessi (la Supreme di Barletta ha potuto accreditarsi ufficialmente anche Spagna e in altri Paesi, oltre che in Cina) senza però necessariamente essere al corrente della natura delle contese legali che la contrappongono tutt'ora al marchio originale.

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