Ci sono quasi sempre dei social network nelle puntate di Black Mirror. Chi conosce la serie tv di fantascienza di Charlie Brooker (al momento alla sua terza stagione su Netflix, ma con le prime due che consistono solo di 7 episodi, in totale), sa che il nostro futuro, qualunque esso sia, non può prescindere da una revisione dei rapporti che ci legano tutti. Che i social network siano qui per restare lo sappiamo da tempo ma cosa possano diventare e in cosa possano tramutarci è più complesso. La serie britannica ora passata in America, in ogni puntata crea uno scenario diverso non legato agli altri, sempre pessimista ma sempre molto intelligente nella maniera in cui riflette sui germi del cambiamento che la tecnologia fomenta. Quasi sempre tramite i social network che conosciamo o che si inventa.
Non c’è speranza in queste puntate perché la tv, come il cinema, proietta più le paure del presente che i sogni del futuro, e così facendo tocca nervi scoperti. Black Mirror in questo è magistrale. Guardando tutti i 13 episodi delle tre stagioni, è impossibile non notare come nella miglior produzione di fantascienza distopica che esista oggi i social network siano un inferno di controllo più che un mezzo di espressione. Le dinamiche di odio sociale, popolarità, giudizio e sfogo sono molto meno spontanee di quanto non sembrino e sempre “comandate” ad arte da qualcuno. Quel che Black Mirror ha capito e riesce a rappresentare è come questa tecnologia decentrata in realtà sia più prevedibile e orientabile del previsto.
A partire dal primo, storico, episodio della serie (quello in cui la principessa d’Inghilterra viene rapita e la condizione per liberarla è che il primo ministro faccia sesso con un maiale in diretta nazionale), i social network sono già un’arma di controllo. Il governo non può “barare” nel mettere in scena la penetrazione zoofila perché esistono i social network e c’è sempre qualcuno che, con una foto postata online, può rovinare il trucco. Siamo noi che spiamo su di noi, fomentati dalla parte peggiore del nostro essere umani. L’odio e la cattiveria alla base degli hater si ritrovano anche in un altro episodio, in cui proprio il fenomeno degli insulti a chiunque faccia qualcosa che pare poco etico si trasforma in morte, una decisione collettiva che ha la caratteristica tipica dei social network (non far sentire nessuno individualmente responsabile), che sfocia nella morte reale ed efferata. Non solo ci guardiamo, il problema vero è quanto ci giudichiamo e su metri.
La paura principale di questa serie è quella che stiamo guardando noi stessi così da vicino e con tale costanza da creare unicamente terrore del giudizio. Sempre nella nuova stagione i social network sono l’arma di ricatto di chi impugna tue foto compromettenti, chi indaga su di te, scopre qualcosa e minaccia di postarlo, costringendoti a fare cose terribili per non finire sulla gogna. Questo è vero sia nel presente sia in un futuro immaginato come più remoto in cui il meccanismo della valutazione alla base di Uber, Tripadvisor e mille altri servizi viene esteso agli umani. Valutare le persone ne assimila il giudizio e il comportamento, crea il massimo della falsità, un mondo dorato in cui ognuno è terrorizzato dal non piacere. È iperbolico (ma non tanto) e assurdo ma fa pensare molto all’uniformità che un giudizio da parte di molte persone comporta: dover essere come la volontà di massa chiede.
E se con il personaggio di Waldo, Black Mirror ha messo in scena la paradossale creazione di ideologia politica a partire da fenomeni della rete, possibile solo grazie alle connessioni immediate, momentanee, superficiali e poco ponderate tipiche dei social network, è con l’episodio in cui una donna sperimenta un’intelligenza artificiale in grado di fingersi il proprio marito morto dopo aver analizzato tutti pensieri che egli aveva mai espresso sui social network, che si compie l’atto definitivo. Il controllo di massa non è solo quello nostro sui politici o nostro nei nostri confronti, quello che terrorizza e spinge all’uniformità, ma soprattutto quello di qualcun altro che sfrutta per denaro il complesso di ciò che diciamo e scriviamo.