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Opinioni

Ghost In The Shell pone la domanda giusta sulla tecnologia moderna: io chi sono in rete?

La versione 2017 della storia e dei personaggi di Masamune Shirow cambia la trama e anche le domande che si pone. Non più intelligenza artificiale ma qualcosa di più vicino a tutti: l’identità in rete.
A cura di Gabriele Niola
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a ghost in the shell

Per quanto sia un remake, un adattamento e un reboot tutti insieme, la versione in carne ed ossa (ma soprattutto americana) di Ghost In The Shell, che riprende tantissimo delle precedenti incarnazioni del titolo, il film con Scarlett Johansson che è appena uscito in sala un dettaglio lo doveva aggiornare necessariamente: la tematica. L’anime di Mamoru Oshii che ha reso famoso il manga di Masamune Shirow aveva una trama poliziesca che lentamente sfociava nel filosofico e si poneva le domande più adatte allo stato della tecnologia (o dei sogni tecnologici) dell’epoca. Se è possibile un’intelligenza artificiale, può anche evolversi? E se può evolversi può farlo in maniere simili alle nostre? E allora quand’è che la chiameremo umana? In buona sostanza invece di chiedersi quanto le IA potessero somigliarci, si chiedeva quanto noi, come specie, somigliassimo alle IA.

Era una questione che rimane affascinante ma sempre di più ci sembra ingenua, perché la tecnologia, lo sappiamo, è andata altrove. La ricerca sull’IA è più forte e importante che mai, ma a differenza del 1995 esiste anche una dimensione tecnologica che interessa di più la società, è quella che prima era per pochi e oggi è per tutti, la tecnologia di consumo che ha portato la rete a tutti. Per questo Ghost In The Shell, versione 2017, necessariamente passa dal porsi domande altissime, sui massimi sistemi, ad affrontare un nodo che esiste anche nelle vite quotidiane del pubblico. Siamo noi che ci siamo avvicinati alla fantascienza e non viceversa. Tante delle novità tecnologiche che contiamo oggi non esistevano negli anni ‘90 ma molte di queste erano prevedibili o sono l’evoluzione di tecnologie che già esistevano, fossero o meno diffuse. I social network sono l’unica che non era nemmeno immaginabile, per questo la più devastante.

Il Maggiore stavolta non è alle prese con un Burattinaio in cerca di lei per una forma di possibile evoluzione, ma è alle prese con i propri ricordi e la domanda fondamentale: “Chi sono?”. In questo paradossalmente vicino alla fantascienza di Philip Dick che si è sempre posta questa domanda, ma con un twist più attuale. Da quando internet ha preso la strada dei social network, cioè da quando ogni essere umano ha a portata un piccolo orticello, un piccolo angolo di internet che può considerare proprio, uno in cui stringere legami simili o diversi da quelli del mondo reale, da quando la tecnologia consente di portare con sé minicomputer potenti e in grado di riformulare l’identità di ognuno, la domanda “chi sono quando sono connesso in rete?” è alla portata di tutti.

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Come spiega molto bene Sherry Turkle, che di identità sociale si occupa da tantissimo tempo e ultimamente ha preso di petto quella che gli individui formano in rete, nessuno può essere realmente se stesso online, perché per comunicare e comunicarsi è necessaria una riduzione. La complessità del sé è difficile da trasmettere tramite interazioni dal vivo, figuriamoci in rete, a colpi di stati, immagini, commenti e link. Chiunque online sceglie di assumere un personaggio più o meno distante dal proprio sé. I troll scelgono di essere qualcosa di fastidioso, di agire artificiosamente, altri si illudono di essere così sinceri e onesti da essere sé, altri ancora cercano di apparire migliori di quanto non siano (più colti, più interessanti, più sofisticati), altri ancora danno il peggio di sé volenti o nolenti.

Che un titolo così importante, uno che negli anni ‘90 con il primo anime ebbe un successo tale da consentirgli di fare il punto sullo stato della riflessione tecnologica, scelga ora di virare da quei temi, mostra innanzitutto come sia fisiologicamente cambiata la maniera in cui vediamo e ci preoccupiamo della tecnologia, ma soprattutto mostra quanto siamo più attaccati ad essa. Invece che riflettere e porsi domande su un’idea lontana, puramente speculativa, il film parla di qualcosa cui ognuno può relazionarsi. I ricordi sono una componente ormai fondamentale di Facebook. Il social network di Zuckerberg esiste da così tanto da aver creato un database di ognuno e ripropone quasi giornalmente ricordi nella forma di vecchi post.

Anche il Maggiore, nel film, vede comparire davanti a sé vecchi ricordi di cui non capisce il senso (perché non li riconosce come propri) e quello è il nodo che fa scattare in lei il sospetto di essere altro da quel che crede. I social network sono l’unica novità della tecnologia digitale che agisce direttamente sulla nostra percezione di noi stessi, l’unica maniera in cui trasportare i problemi e i vantaggi delle relazioni umane in un terreno immateriale in cui, come in Ghost In The Shell, c’è una chiara distinzione tra il corpo e lo spirito, anzi in cui regna solo il secondo, veicolato da pagine, immagini, link e tutto il solito armamentario. Posso essere chi voglio e incarnare “corpi” diversi di volta in volta.

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