L'accordo tra Google e Fisco che porterà al pagamento di 306 milioni di euro da parte di Google verso l'Agenzia delle Entrate ha sollevato nuovamente il polverone sempre attuale riguardante il pagamento delle tasse delle grandi aziende tecnologiche americane operative in Italia, ma che attraverso scappatoie legali pagano le tasse in paesi a tassazione agevolata, come l'Irlanda. Proprio il nostro paese, però, potrebbe essere il primo a proporre una soluzione concreta a questa situazione con la Digital Tax attualmente in fase di discussione in Parlamento. Ma non solo.
La situazione è ormai chiara da tempo: le aziende operano in Italia ma fatturano in paesi come Irlanda, Olanda, Belgio e Lussemburgo, cioè paradisi fiscali che stringono accordi con le realtà americane che, in cambio, offrono investimenti e posti di lavoro. Questo sommato all'ormai anacronistico concetto di "stabile organizzazione", cioè legato alla presenza fisica di uno stabilimento, portano ad una difficile interpretazione dell'operatività di colossi che ormai gestiscono la quasi totalità dei loro prodotti attraverso il web, avvalendosi solo della "stabile organizzazione". Che c'è e ha già consentito di arrivare al pagamento di diversi milioni di euro da parte dei colossi tech: a dicembre 2015 Apple ha versato 318 milioni di euro al Fisco, mentre la scorsa setimana Google ha fatto lo stesso per una cifra di 306 milioni di euro.
Accordi importanti, ma anche irrisori se si pensa alle (reali) tasse non pagate dalle aziende. "Bisogna far emergere i redditi della digital economy consentendo all’Agenzia delle Entrate di accertare gli affari che questi colossi fanno in Italia" ha spiegato il senatore Massimo Mucchetti, presidente della Commissione Industria del Senato presentando un disegno di legge che ha introdotto la web tax. Di digital tax si parla però da diverso tempo e, come spesso accade in questi casi, con altrettanta rapidità il discorso sparisce dal tavolo. All'inizio del 2016 l’allora sottosegretario Enrico Zanetti annunciò una digital tax operativa a partire dal 2017, un progetto poi accantonato.
"La tassazione dei profitti sul web è un problema fondamentale per lo sviluppo del mondo anche perché l’economia digitale riduce sensibilmente i posti di lavoro" ha continuato il procuratore di Milano Francesco Greco, responsabile dell'ufficio che sta indagando sui colossi tech. "Hanno accettato la stabile occulta, evidentemente qualche problema ce l’hanno". Una possibile soluzione, spiega Franco Gallo, presidente emerito della Corte costituzionale, potrebbe essere quella della Bit Tax: una tassa di 0,000001 centesimi di dollaro a bit da applicare sui dati trasmessi via internet. Un approccio in grado di generare "enormi introiti" ed essere "liquidata paese per paese". Ma che genera anche il rischio che questi costi vengano poi scaricati sui consumatori.
L'idea piace a Greco, che però vuole assicurarsi che a versarla siano le realtà produttrici dei servizi o prodotti e non gli utenti finali. Per identificare che una "stabile organizzazione", anche se sul web, sia effettivamente reale, il disegno di legge prevede che l’impresa estera abbia svolto in 6 mesi almeno 150 transazioni in Italia per un totale di un milione di euro. Il governo discuterà della proposta la settimana prossima a Bari, nel corso della riunione dei ministri delle finanze dei paesi del G7