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Ecco come Change.org genera profitti con la tua firma

Una firma, semplice e veloce. Online, poi, ci costa 30 secondi del nostro tempo: basta inserire il nostro nome e cognome, l’indirizzo mail e premere un pulsante. Eppure da quel breve gesto qualcuno ci guadagna.
A cura di Marco Paretti
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Una firma, semplice e veloce. Online, poi, ci costa 30 secondi del nostro tempo: basta inserire il nostro nome e cognome, l'indirizzo mail e premere un pulsante. Eppure quel breve gesto è più importante di quanto possa sembrare. Non solo perché stiamo sottoscrivendo una petizione o una causa che noi reputiamo giusta, ma anche perché lo stiamo facendo cedendo delle informazioni personali che rispecchiano i nostri interessi. Dati che, in seguito, possono essere venduti come già succede su social network e svariati servizi online in grado di lucrare proprio sulle informazioni degli utenti.

Se si prende come esempio uno dei portali più famosi nell'ambito delle petizioni, Change.org, ci si accorge che l'impostazione da non profit è in realtà solo il risultato di attente scelte comunicative. Partendo dall'estensione .org fino all'utilizzo del termine "donazioni"; Change.org è in realtà un'azienda che possiede un fine sociale ma che genera utili, sfruttando le "donazioni" come sinonimo di sponsorizzazioni. In breve, più si spende più la campagna ottiene visibilità e viene mostrata a più papabili firmatari.

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Ma non solo, perché se il sistema delle donazioni funziona è solo perché il portale è in grado di profilare gli utenti in maniera simile a quanto fatto da social network e servizi online: in questo modo Change.org può indirizzare le petizioni a pagamento verso quegli utenti che con molta probabilità finiranno per firmarle perché vicine agli argomenti che li hanno interessati in precedenza. Una procedura basata su un vero e proprio tariffario, come rivelato da L'Espresso, che propone ad organizzazioni e partiti una lista di contatti e indirizzi legati a papabili firmatari.

Si parte da un euro e cinquanta centesimi per il singolo contatto email se la richiesta è inferiore ai 10.000 nomi, mentre in caso contrario l'importo arriva anche a 85 centesimi a contatto, ma solo per un numero superiore ai 500.ooo. Un prezzario che "varia da cliente a cliente e in base al volume degli acquisti" spiega Change.org. Il tutto basato su un sistema di profilazione che, peraltro, si basa su interessi decisamente personali come l'orientamento politico o il sostengo a cause sociali. Per approvare tutto questo basta lasciare spuntata la voce "Tienimi informato su questa petizione": se lasciato così com'è, questo piccolo box fornisce all'azienda la possibilità di utilizzare i nostri dati per altre campagne.

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Un approccio criticato da diversi esperti, compreso Thilo Weichert, ex commissario per la protezione dei dati tedesco, che ha più volte spiegato come l'azienda non sia trasparente sulle modalità con cui tratta i dati degli utenti. Tanto che anche la Commissione per la protezione dei dati di Berlino ha aperto un'inchiesta, tuttora in corso, su Change.org e il suo business. Il problema, spiega Rena Tangens di Digitalcourage, non è la volontà di realizzare una piattaforma simile, ma la protezione dei dati. Messi a rischio anche dalla localizzazione di Change.org negli Stati Uniti, che, di conseguenza, li rende soggetti alla sorveglianza di governo e autorità.

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Giornalista dal 2002 specializzato in nuove tecnologie, intrattenimento digitale e social media, con esperienze nella cronaca, nella produzione cinematografica e nella conduzione radiofonica. Caposervizio Innovazione di Fanpage.it.
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