7 CONDIVISIONI
video suggerito
video suggerito

Elserino Piol: il venture capital “per non perdere il futuro”

Elserino Piol, protagonista di mezzo secolo di storia dell’industria It, ex vicepresidente di Olivetti e padre del venture capital italiano, ci racconta cosa pensa delle principali innovazioni nel mondo digitale e quali pratiche si dovrebbero mettere in atto nella nostra nazione, sin dal sistema universitario, per poter risollevare il mercato degli investimenti alle giovani startup italiane..
A cura di Fanpage Admin
7 CONDIVISIONI
elserinio-piol

L’Italia è ancora in tempo ad acciuffare il futuro? La risposta che dà Elserino Piol, padre del venture capital italiano, nel suo libro "Per non perdere il futuro. Appunti per l’innovazione e la competitività dell’Italia" (Guerini e Associati 2008) è positiva.

A patto che il nostro paese sviluppi un approccio sistemico, uno schema unitario in cui tutti gli ingredienti del cocktail dell’innovazione siano complementari. Il ruolo del venture capital in questo sistema diventa fondamentale, capace di selezionare e dare credito ad aziende su base meritocratica, in un’ottica in cui il rischio e il fallimento sono contemplati come meccanismi naturali, controbilanciati da casi di successo.

Il titolo del libro "Per non perdere il futuro" può essere soggetto ad una duplice interpretazione: quella positiva, cioè siamo ancora in tempo ad acciuffare il futuro, o come avvertimento, "lo stiamo per perdere": quale dei due messaggi ha voluto trasmettere?

L’interpretazione è positiva nel senso che il futuro possiamo non perderlo a patto che ci mettiamo in maniera seria sul cammino dell’innovazione e con una visione sistemica di come innovare. Se non ci muoviamo in questa direzione il futuro rischiamo di mangiarcelo. Sono convinto che in Italia ci sono tutti gli ingredienti, tutte le possibilità per fare qualcosa di veramente innovativo perché esiste un tessuto di piccole e medie aziende, di piccoli imprenditori che, se indirizzati in maniera giusta e con le dovute iniezioni di cultura, possono fare molto.

Lei indica come soluzione per permettere al nostro paese di "non perdere il futuro" un approccio sistemico: come si può sviluppare?

Innanzitutto bisogna essere consapevoli del vero significato di innovazione. Quando si parla di innovazione si tendono a fare spesso dei discorsi molto lacunosi. Un esempio ci è dato dai nostri politici che pongono l’accento sui maggiori finanziamenti per ricerca e sviluppo senza rendersi conto che, se queste spese per la R&S non sono coerenti con un sistema generale di innovazione, servono a poco. Occorre affrontare innanzitutto il discorso cultura. L’innovazione può essere considerata un cocktail con vari ingredienti: sviluppare i talenti quindi i futuri imprenditori, sviluppare nuove idee, idee creative su cui poter fare impresa e su cui poter investire dei capitali di rischio affinché l’impresa possa crescere.

Una volta capito in cosa consiste il sistema per l’innovazione è importante realizzare in parallelo tutte quelle iniziative necessarie con la consapevolezza che quest’ultime non danno una soluzione a breve termine ma in un arco di tempo relativamente lungo. Occorre fare un’azione molto più energica di quanto si faccia oggi nelle università per sviluppare talenti con visione tecnologica, con visioni che consentono di applicare le tecnologie a nuovi schemi organizzativi, a nuovi schemi di aziende. Un processo che richiede tempo. Bisogna quindi creare delle strutture che diano capitali di rischio, di venture capital. In mancanza di venture capital anche una buona ricerca fatta nell’ambito dell’università rischia di essere fine a se stessa, cioè di rimanere nei cassetti di vari laboratori. È difficile quindi riassumere cos’è un sistema per l’innovazione: è un cocktail costituito da una serie di componenti che in Italia, prese singolarmente, ci sono. Ciò che manca è una gestione di questi ingredienti all’interno di uno schema unitario in cui siano tra di loro in un rapporto complementare.

Tale situazione deriva anche dalla forte immobilità tipica del nostro paese?

In Italia c’è una resistenza al cambio. A tal proposito possiamo fare riferimento ad una serie di studi recenti, come quello di Abravanel, in cui si affronta il discorso della meritocrazia non ancora sviluppato in Italia e di come questa situazione impedisca la mobilità culturale italiana, favorendo un ambiente in cui non a tutti vengano offerte le opportunità che si meritano. Altre tematiche fondamentali legate al discorso della mobilità sono la liberalizzazione e la concorrenza: in Italia si tende ancora a ragionare per caste, sistemi chiusi che rendono più rigida la mobilità delle persone, delle idee. Un altro elemento importante è la capacità da parte dell’Italia di recepire i trend tecnologici nuovi. E qui ci troviamo di fronte ad una grande contraddizione: le nuove tecnologie si sono molto diffuse tra i giovani del nostro paese ma non sono ancora riuscite a penetrare nelle strutture aziendali.

L’innovazione legata ad internet è piuttosto vista come un modo di interazione tra i giovani. E i vantaggi del web 2.0 si vedono molto poco nelle piccole e medie aziende. Specialmente in Italia che è un paese dove abbondano le piccole e medie aziende, queste tecnologie nuove dovrebbero essere quelle vincenti in quanto permettono di sviluppare un business indipendente dalla dimensione dell’azienda, grazie al fatto che Internet consente di andare in tutto il mondo e di recepire innovazione da tutte le parti del mondo.

A proposito di giovani è interessante la sua proposta di sponsorizzare i casi di successo come si fa con i calciatori e i cantanti famosi, da dove nasce quest’idea?

È fondamentale creare nei giovani un interesse a diventare imprenditori e quindi pubblicizzare le persone di successo. Nel periodo a cavallo tra la fine del secolo scorso e questo alcuni personaggi come Soru ad esempio, sono stati presentati come i nuovi innovatori, i nuovi manager. Ma non appena è scoppiata la bolla anche l’attenzione sui casi di successo è svanita. Se facciamo il paragone con gli Stati Uniti ci rendiamo conto che lì persone come Steve Jobs e Bill Gates sono considerate delle icone, valorizzando nell’opinione pubblica il loro ruolo.

Continuando il paragone con gli Stati Uniti quale modus operandi della Silicon Valley può essere replicato in Italia?

Quello che può essere replicato in Italia è lo spirito della Silicon Valley, cioè la capacità di rischiare, di voler cavalcare nuove idee, di mettere tutte le energie al loro servizio. È bene però essere consapevoli che investire energie e tempo in queste nuove idee significa non lasciare spazio a nient’altro, non dedicarsi ad altri interessi. L’azienda e l’impresa diventano l’unica missione in cui impegnarsi. Tant’è vero che la Silicon Valley è anche piena di divorzi, in quanto in molti casi la famiglia passa in secondo piano rispetto all’impegno aziendale. Un altro aspetto da considerare è che la Silicon Valley è un concentrato degli ingredienti di quel famoso cocktail di cui le parlavo all’inizio, necessario per innovare. Cosa ha nello specifico la Silicon Valley? Le università come Stanford, Berkeley; le banche e i legali specializzati nell’impresa ad alta tecnologia; aziende di successo. Infine la cosa importante è che il 60% del Venture Capital è concentrato lì.

E qui c’è la differenza fondamentale tra quello che la Silicon Valley insegna e quello che c’è in Italia: in Italia si tende a portare tutto “alle porte di casa”. In America c’è il “go west”, cioè le persone che vogliono intraprendere nuove iniziative, che vogliono rischiare su nuove idee, si spostano nella Silicon Valley. Ne consegue che la mobilità geografica è un elemento importante. Da noi ci si aspetta invece che la provincia, il comune, la regione creino le condizioni per l’innovazione alle porte di casa. Occorre quindi che i giovani vadano dove c’è un concentrato di cultura, di aziende, di università. In Italia bisognerebbe puntare alla realizzazione di 3-4 centri di eccellenza. In quest’ottica il problema nord-sud non è considerato nei giusti termini, in quanto esso non consiste tanto nel creare centri di innovazione al sud, quanto nel consentire ai giovani del sud di sviluppare nuove idee anche in altri parti d’Italia e poi successivamente portarle al sud. La mancanza di mobilità geografica limita molto l’Italia e aumenta la dispersione delle energie. Ci sono moltissime iniziative però sparse e con dimensioni critiche, non sufficienti per sviluppare delle imprese innovative.

Lei indica nel libro la città di Milano come possibile technological cluster: che tipo di environment offre?

Milano, insieme a Torino, sono gli unici centri in cui oggi c’è una miscela di competenze, dalla consulenza agli studi legali, alle banche, alle università ecc…, tutti gli ingredienti del cocktail di innovazione di cui le parlavo. Il che non significa limitarsi a Milano. In Italia bisogna avere dei punti di eccellenza da cui partire. Su Milano si potrebbero ad esempio creare delle iniziative nuove che poi, dopo, naturalmente potrebbero essere spostate in altre parti del paese. E’ fondamentale quindi che l’imprenditore di nuove idee abbia la possibilità di raccogliere attorno a sé tutte le competenze e gli aiuti che gli sono necessari con il minor sforzo possibile.

Una possibile collaborazione tra amministrazione pubblica e venture capital sono i fondi dei fondi: come si articolano?

Per poter fare innovazione bisogna avere venture capital. La capacità dell’Italia di creare fondi di venture capital e raccogliere la necessaria fiducia e i capitali diventa difficile. Quindi per decollare bisogna ridurre l’attrito di partenza attraverso i fondi dei fondi. Si tratta di utilizzare denaro pubblico che assieme al denaro privato consente di avere una disponibilità finanziaria per alimentare poi dei fondi di venture capital. Il concetto di fondo è il seguente: il pubblico, che non ha le strutture e la cultura per farlo, invece di investire nelle aziende, mette a disposizione dei soldi. Questi soldi pubblici assieme a quelli privati consentono una gestione delle iniziative secondo logiche private. In questo modo si ha la possibilità di creare dei fondi di venture capital che investono nelle aziende.

A questo punto abbiamo due livelli: il pubblico che investe nel fondo dei fondi e detta le sue regole, pone le sue condizioni con una percentuale di vincoli burocratici; le aziende finanziate dal fondo che diventano però gestibili con logiche completamente privatistiche. Sta al venture capitalist soddisfare le due esigenze: verso l’alto, rispettando i vincoli posti dal pubblico, verso il basso, cioè verso le aziende, comportandosi secondo la logica ottimale per gestire il rischio e le problematiche tecnologiche e organizzative.

La gestione da parte del venture capital consente di dare anche maggiore spazio alla meritocrazia?

Non c’è dubbio. Il venture capital non perdona. Tant’è vero che se uno guarda un fondo di vc si accorge fondamentalmente che su 10 aziende su cui si investe, quelle di successo sono solo due, tre, quattro al massimo. Il vc accetta il rischio di investire ma nel momento in cui si accorge che un’azienda non è in grado di far fronte ai suoi impegni e alla sua visione, cessa di alimentarla, concentrandosi su quelle che hanno più probabilità di successo. La logica del vc è quello di accettare dei fallimenti di aziende come un processo naturale di selezione e mano a mano che si procede nella gestione delle aziende concentrare i capitali su quelle che vanno meglio.

Nella sua recente intervista con Gianluca Dettori mi è sembrato di capire che in Italia non ci sia solo carenza di Venture Capital ma anche della domanda…

Il punto fondamentale è il seguente: oggi manca il venture capital. Ne consegue che sono pochi coloro vogliono fare impresa perché sanno che è difficile raccogliere capitali di rischio. Se di colpo si aprissero le righe e ci fosse più capitale disponibile per il vc, ci accorgeremmo che non ci sono abbastanza imprenditori. Ecco perché bisogna agire sia sul piano dell’offerta che su quello della domanda. In altri termini torniamo al discorso iniziale della visione sistemica: oggi ci sono moltissime idee che vengono presentate a probabili investitori. Tali idee sono tante in rapporto ai capitali disponibili, poche in rapporto a quelle di cui l’Italia avrebbe bisogno. Quindi occorre lavorare in parallelo su due fronti: creare gli aspiranti imprenditori ed educarli e avere il vc a disposizione per alimentare le loro idee.

Quindi se si crea l’environment favorevole è possibile che gli imprenditori riescano a superare le paure iniziali e lanciarsi in nuove imprese?

Se noi guardiamo ad esempio le offerte che riceve Dettori ci accorgiamo che la maggioranza di queste sono di giovani appena usciti dall’università, o addirittura ancora studenti. Si trovano relativamente poche richieste da ex dirigenti d’azienda, perché avendo più anni, ricordano i fatti negativi della bolla e sono più scettici riguardo alla possibilità di trovare soldi per nuove iniziative. Quelli che hanno un’attività anche poco interessante ma sicura sono poco incentivati a partire su nuove iniziative perché non sanno se troveranno tutti gli strumenti e quindi il venture capital per alimentarle. Coloro che invece non hanno nulla da perdere, gli studenti o i neolaureati, evidentemente guardano la situazione con più ottimismo e pensano: “mal che vada non trovo i soldi, non cambia nulla”. Ma in questo caso ci troviamo di fronte ad imprenditori poco preparati, con poca esperienza.

Il ruolo dell’università diventa a questo punto fondamentale: che tipo di educazione dovrebbe fornire ai giovani studenti?

La priorità numero uno per cambiare l’Italia è chiaramente l’educazione. I giovani neolaureati sanno poco di cosa significa fare impresa. Le università non insegnano a fare impresa, ad essere imprenditori. L’altra priorità è la cultura dell’innovazione e del vc. A questo proposito voglio ricordare una cosa: se prendiamo le ultime elezioni sia destra che sinistra parlavano di innovazione ma il nome venture capital non era contenuto in nessuna delle dichiarazioni programmatiche. Il che significa che il vc non è entrato ancora a far parte della cultura delle persone.

Un venture capitalist come Elserino Piol che in tutti questi anni è riuscito ad essere al passo con il futuro, cos’ha nel suo DNA?

Fondamentalmente due cose: la fortuna e la salute. Negli anni ’80 ho avuto l’incarico dall’Olivetti di esplorare iniziative nuove per portare l’innovazione in azienda ed ho scoperto il vc che allora era ancora sconosciuto. Quando nell’80 sono andato in America per vedere quali tipi di alleanza poteva fare l’Olivetti mi sono accorto che il vincolo migliore era il venture capital. Questa è stata la mia fortuna. Mi ricordo che quando tornai ad Ivrea dopo un viaggio molto lungo in America e spiegai il venture capital, era un argomento abbastanza innovativo. Tant’è vero che l’Olivetti nell’anno ‘83 fece un seminario a Venezia per spiegare in Italia cos’era il vc. Fu fatto con i migliori venture capital americani. E l’altra cosa importante è indubbiamente la salute che mi consente di fare questo mestiere.

7 CONDIVISIONI
autopromo immagine
Più che un giornale
Il media che racconta il tempo in cui viviamo con occhi moderni
api url views