Facebook: agente segreto 2.0 al servizio dei poteri forti
Volendo utilizzare una frase d'apertura che suoni a mo' di slogan potremmo dire che, ormai, Facebook è il motore di ricerca preferito dall'FBI, e nessuno potrebbe tacciarci d'essere granché faziosi. Già qualche settimana fa, infatti, avevamo parlato di come il social network di Zuckerberg abbia posto in essere discutibili pratiche censorie ma, ultimamente, stanno venendo a galla notizie ancor più inquietanti che riguardano l'abitudine di Facebook (se prima solo sospetta, ormai più che accertata) di offrire informazioni riservate alle principali agenzie federali (FBI, DEA, ICE).
La questione è stata sollevata dalla Reuters che, in collaborazione con Westlaw, ha indagato a proposito della "grande disponibilità" mostrata da Facebook nel corso di investigazioni riguardanti crimini come l'incendio doloso, lo stupro e i reati connessi al terrorismo (ed è solo la punta dell'iceberg).
Fin qui nulla di male, verrebbe da dire. Se una persona delinque ed esiste uno strumento in grado di agevolare le indagini al fine di assicurare il colpevole alla giustizia, che c'è di sbagliato? In linea puramente teorica, nulla. Ma nella pratica non è possibile esimersi dal sollevare delle questioni di ordine etico che non possono essere definite da una logica di tipo manicheo.
Secondo i dati in possesso della Reuters, infatti, le "delazioni" da parte di Facebook sarebbero pari a due dozzine e riguarderebbero messaggi, aggiornamenti di stato, link a video e fotografie, calendari di eventi passati e futuri e –udite udite– richieste di amicizia rifiutate. Il che significa che chiunque, senza saperlo, potrebbe essere stato contattato da un criminale, invitato a un evento dubbio, taggato in una foto o video compromettente e risultare quindi "sospetto" di cattive frequentazioni.
Ma c'è di più. Alle agenzie investigative sono state fornite informazioni invisibili persino all'utente stesso. Insomma, se esiste qualcosa di compromettente su un account di cui neppure il proprietario è a conoscenza, l'FBI ha più diritto di lui a prendere visione di quelle informazioni.
Sebbene la legge non imponga a Facebook di comunicare all'utente interessato dalle indagini di aver fornito i suoi dati personali alle autorità, altri social network -come Twitter- hanno deciso di assumere un atteggiamento più trasparente, scegliendo -nel caso fossero obbligati a fornire informazioni riservate agli inquirenti- di recapitare all'interessato una comunicazione circa le indagini in corso e in merito ai dati che si è stati costretti a fornire. Ciononostante, nel corso di un'intervista telefonica rilasciata a Reuters, il Chief Security Officer di Facebook, Joe Sullivan (pur rifiutando di fornire il numero di richieste di informazioni a cui la compagnia si è assoggettata) ci ha tenuto a specificare che Facebook "è molto sensibile riguardo le tematiche relative alla privacy degli utenti" e che respinge regolarmente le cosiddette fishing expeditions, ovvero le richieste di informazioni che non riguardano una singola persona nei confronti della quale si nutrono fondati sospetti, ma su gruppi o categorie di individui accomunati da una qualche caratteristica, nella speranza che, gettando l'esca, qualcuno "abbocchi all'amo".
Ma il vero problema è che ci sono diversi aspetti che rendono la questione a dir poco scottante e potenzialmente pericolosissima per la sopravvivenza della rete così come la conosciamo. Infatti, come Chris Soghoian ha recentemente fatto notare:
Il numero di casi accertati è così basso perché l'indagine della Reuters si è limitata ai casi di pubblico dominio, ovvero ai mandati di perquisizione federale recapitati all'indirizzo di Facebook. I mandati che non di pubblico dominio, le citazioni in giudizio e le richieste da parte della polizia non sono inclusi, e probabilmente costituiscono il grosso delle richieste di informazioni indirizzate al gigante del social networking.
Se poi si considera che, come evidenziato da Forbes, il Congresso degli Stati Uniti sta valutando una proposta di legge in materia di pornografia infantile che obbligherà gli Internet Provider a conservare ancora più dati a uso e consumo della polizia, si comprende facilmente come il titolo "Protecting Children from Internet Pornographers Act 2011" non sia altro che uno specchietto per le allodole. Una legge dalle sembianze innocenti le cui intenzioni "di facciata" non possono non essere condivise, ma che in realtà intende celare un'intensa pratica censoria che poco ha a che vedere con la protezione dei bambini e molti (moltissimo) con il desiderio di instaurare un regime di severo controllo su tutte le operazioni degli internauti, compresi coloro che non si sono mai macchiati di alcun reato né intendono farlo in futuro. Compresi noi.
Siamo nell'era del tech-entusiasmo, è vero, ma l'entusiasmo non dovrebbe impedire di vedere le storture di un mondo come quello del web 2.0 che è sì luogo di rivincita, in cui la partecipazione sociale e politica si ridefinisce in forme nuove e spesso meravigliose, ma che nasconde anche -come sempre accade- prospettive inquietanti. Basti guardare al caso, tutto nostrano, del sospetto blogger che rivela i "segreti" della Casta e che in queste ore si sta palesando come una bufala che rischia solo di fare del male proprio al mezzo che dice (e crede) di esaltare.
Il punto è che bisognerebbe rimanere vigili e avere il coraggio di imporre alle grandi compagnie il rispetto delle regole e delle libertà individuali, bisognerebbe far loro comprendere che compiacere i potenti potrebbe sembrare conveniente "politicamente", ma potrebbe -altresì- rivelarsi catastrofico dal punto di vista economico. Del resto, le grandi tech-companies non parlano altra lingua se non quella del denaro, e il popolo del Web ha ancora il potere di mostrare quanto sia sconveniente avere così poca cura dei propri "clienti" e così tanta nei confronti dei potenziali protettori…