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Facebook e la Rivoluzione egiziana: il social network ha difeso gli insorti

Il coinvolgimento di Facebook all’interno della dinamiche della rivoluzione egiziana sembra essere molto più attivo di quanto potrebbe sembrare. Gli executives manager hanno aiutato i rivoltosi.
A cura di Anna Coluccino
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Opposition supporters rest in Tahrir Square in Cairo

Si fanno sempre più insistenti le voci che reclamano l'etichetta di "Facebook Revolution" per tutto ciò che è accaduto nell'Egitto di Mubarak qualche settimana fa e, sebbene esistano diverse motivazioni per cui il social network di Zuckerberg possa essere considerato, con buona ragione,  un importantissimo pezzo del mosaico, le rivoluzioni sono, per definizione, il prodotto di una serie di fortunati eventi, primo tra tutti: la fine della sopportazione. Quando la misura è colma, tutti i popoli con un qualche rimasuglio di dignità ed amor proprio si rivoltano, appoggiandosi a quel che c'è, cercando di realizzare il sogno del cambiamento con ogni mezzo e, nell'era contemporanea, i "mezzi" abbondano, primo tra tutti: Facebook.

Non è un caso se, qualche giorno fa, due genitori egiziani hanno chiamato la loro bambina Facebook Jamal Ibrahim, il ruolo del social network all'interno del processo rivoluzionario non viene solo riconosciuto, viene addirittura celebrato, e questo avviene fin dal primo giorno. Ma le ragioni di tutto questo vanno ben al di là del semplice fatto che, attraverso Facebook, i rivoluzionari siano riusciti a comunicare e ad organizzare le manifestazioni di protesta. Il coinvolgimento del social network di Zuckerberg sembra molto più profondo e, malgrado le frequenti smentite, appare ormai certo che Facebook abbia appoggiato la rivoluzione in maniera decisamente attiva, senza limitarsi ad offrire "un mezzo" per poi lasciare che gli egiziani ne facessero poi ciò che ritenevano più giusto.

Stando a quanto riportato qualche giorno fa dal Daily Beast, gli executieves del social network più famoso del mondo hanno lavorato attivamente al fine di proteggere l'identità e i profili Facebook dei capi della rivolta. In particolare, in seguito alla richiesta d'aiuto da parte dell'amministratore della pagina We Are All Khaled Said, preoccupato di un possibile cyber-attacco da parte del governo Mubarak, un alto dirigente di Facebook in Europa, Richard Allan, ha inviato una email di risposta in cui assicurava di aver "messo tutte le pagine chiave sotto una protezione speciale". In questo modo, Mubarak non ha mai potuto attaccare il cuore della rivolta, né rifarsi sui suoi promotori.

In teoria, la politica del social network è quella di ostacolare la creazione di profili fittizi che si riferiscono a nomi di fantasia, ma nel caso della rivoluzione egiziana Facebook si è affidato completamente alle decisioni di Allen che, ormai, sembra essere diventato un vero e proprio punto di contatto tra il social network e i rivoluzionari di tutto il mondo.

Insomma, che la si chiami o meno Facebook Revolution, sta di fatto che il ruolo giocato dai new media nei tumulti che in questi mesi scuotono il mondo è qualcosa che sociologi di tutto il pianeta dovranno analizzare nel profondo. E chissà che un giorno non si riesca ad avere una risposta chiara ed univoca alla domanda: "quanto ha pesato l'avvento dei new media nel panorama di stravolgimento politico internazionale?". Tutto è incominciato con l'elezione di Barak Obama a presidente USA e, dopo oltre due anni, non accenna a finire, anzi: si intensifica. Forse, quando gli eventi si saranno raffreddati abbastanza da poter essere toccati senza rischiare ustioni, ne sapremo di più. Per ora, dobbiamo arrenderci al fatto che, essendo parte della storia, non potremo mai raccontarla con sufficiente lucidità.

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