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Forbes contro la Web Tax: “è illegale”

Grosse critiche sulla Web Tax anche da parte di Forbes, che definisce la nuova misura “illegale” e spiega per quali motivi non potrà mai funzionare nell’Unione Europea.
A cura di Dario Caliendo
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Anche Forbes attacca la Google Tax made in Italy. In un recente articolo il magazine Newyorkese, specializzato in economia e finanza, definisce "illegale" la misura approvata ed inserita nella legge di stabilità. Una normativa della quale si discute a Bruxelles da diversi mesi, ma mai introdotta da nessun membro dell'Unione, almeno fino ad ora.

Il nodo centrale della misura prevede che: “i soggetti passivi di IVA che intendano acquistare servizi on line sia come commercio elettronico […] sono obbligati ad acquistarli da società titolari di una partita IVA italiana”. L’obiettivo del punto tanto contestato sarebbe quello di evitare “ricavi facili” ai colossi hi-tech dell’e-commerce che – fino a oggi – hanno visto crescere esponenzialmente le vendite online a livello internazionale pagando, però, le tasse una sola volta nel Paese dove ha sede legale la filiale europea, beneficiando di un’aliquota più bassa.

La Web Tax vale anche per i venditori di servizi, link sponsorizzati e spazi pubblicitari. Inoltre, il comma tre specifica: “Il regolamento finanziario […] deve essere effettuato dal soggetto (passivo) che ha acquistato servizi o campagne pubblicitarie esclusivamente tramite lo strumento del bonifico bancario o postale, ovvero con altri mezzi di pagamenti idonei a consentire la piena tracciabilità della operazioni e a veicolare la partita IVA del beneficiario”.

Una misura criticata sin da prima della sua approvazione, anche dal magazine statunitense che già ad inizio novembre aveva definito illegale l'ipotesi normativa, che potrebbe molto probabilmente andare in contrasto con le normative europee vigenti e che rappresenterebbe involuzione per l'economia italiana.

"E' senza dubbio illegale ai fini del diritto comunitario" – scrive Tim Worstall – "nelle varie leggi che coprono le compravendite all'interno dell'Unione Europea (la direttiva Distance Selling Directive ed altre), è espressamente sancito che non è obbligatorio dotarsi di una partita iva appartenente alle nazioni nelle quali si vende". "Non ha alcun senso opporsi a queste leggi" – conclude lo scrittore di Forbes – "fanno parte del sistema comunitario al quale tutti i paesi dell'Unione hanno aderito".

Una tassazione che andrebbe contro gli oltre 100 trattati sulla doppia imposizione che l'Italia ha firmato quando ha accettato di entrare in Europa, trattati che potrebbero anche essere modificati, ma che manterrebbero la loro caratteristica fondamentale: la reciprocità. Il che implica, ad esempio, che se un'azienda con sede in Irlanda venisse tassata in base al regime fiscale italiano qualora volesse vendere nel Bel Paese, automaticamente un'azienda italiana sarebbe tassata in base al regime fiscale irlandese, nel caso in cui volesse vendere in Irlanda (il che, nello specifico, non sarebbe neanche male considerando la differenza di tassazione tra l'Italia e gli altri paesi dell'Unione Europea).

Ma c'è un'altra ragione, ben più importante, che renderà la Web Tax non applicabile in europa: il freedom of establishment, ossia il cuore centrale del libero mercato all'interno dell'UE, che sancisce inequivocabilmente che qualsiasi azienda interna all'Unione, è libera di vendere nei confini dell'UE stessa, senza aver bisogno di una sede legale stabile in ciascuno dei 27 paesi che ne fanno parte.

Un controsenso, che va in contrasto con il cuore principale dell'Unione Europea stessa, ed al quale difficilmente Bruxelles darà la propria benedizione.

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