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I Facebook Papers raccontano come il social ha ignorato per anni disinformazione e violenza

Un consorzio di testate straniere ha pubblicato contemporaneamente una serie di articoli sui documenti interni a Facebook. Si tratta degli stessi studi che Frances Haugen, la whistleblower che ha denunciato i problemi della piattaforma, aveva già fornito al The Wall Street Journal. Sotto accusa gli avvisi sugli algoritmi che amplificavano la disinformazione e i discorsi di incitamento all’odio ignorati dalla dirigenza.
A cura di Ivano Lettere
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facebook 30 giorni

Il social network fondato nel 2004 ha vissuto alti e bassi nel corso della sua vita. I primi sono noti a tutti, se non altro perché quasi tre miliardi di persone possiedono un profilo sulla piattaforma. I secondi, meno famosi, sono spesso saliti agli onori della cronaca come bombe mediatiche che davano puntualmente inizio a una crisi aziendale. Le elezioni presidenziali del 2016 e Cambridge Analytica, solo per citare gli episodi più burrascosi, hanno messo in luce aspetti delle politiche promosse da Zuckerberg & Co. che nessuno avrebbe mai immaginato: sopra tutti, la violazione della privacy degli utenti e la manipolazione dell'opinione pubblica. Ma quei due casi non sono più gli unici a meritarsi il posto nella classifica delle macchie indelebili nella storia di Facebook: sembra infatti che quanto accaduto nelle ultime ore abbia determinato un punto di rottura. Lunedì, 17 giornali americani hanno pubblicato i "Facebook Papers", basati su 10.000 pagine di documenti interni, da cui emergono inadempienze e sotterfugi che hanno indirettamente contribuito all'evoluzione di alcuni fenomeni: discorsi d'incitamento all'odio, violenze nei paesi a rischio e traffico di esseri umani.

I giornali coinvolti

Il consorzio di testate coinvolte in questo nuovo lavoro investigativo include grandi quotidiani come il New York Times e il Washington Post, ma anche riviste come l’Atlantic, e alcuni giornali europei, tra cui il Financial Times e Le Monde. Hanno partecipato anche Politico, CNB News, CNBC, CNN, The Verge, Wired, Associated Press, Bloomberg e Reuters. In totale, tra venerdì, 22 ottobre, e lunedì, 25 ottobre, sono stati pubblicati 40 articoli, e tutti fanno affidamento sui documenti che Frances Haugen, l'ex dipendente che ha criticato Facebook, aveva fornito al The Wall Street Journal.

Disinformazione e odio

Rispetto ad altre inchieste passate, i "Facebook Files" mettono ancora più in risalto la responsabilità di Facebook per la disinformazione dilagante sul social network. Si dà il caso che il flusso di informazioni che scorre sulla piattaforma americana – le cui anomalie sono già preoccupanti – sia ben diverso rispetto a quello di altri paesi. Se nel 2020, per salvaguardare la web community americana dalla disinformazione l'azienda ha speso l'87 percento del suo budget, in altri paesi non è accaduto lo stesso. In India, con 350 milioni di utenti e 22 lingue diverse, non si è avuta la stessa premura: qui, "Facebook non aveva abbastanza risorse e non era in grado di gestire i problemi che lui stesso aveva introdotto nel paese, come la proliferazione di post contro i musulmani", spiega il New York Times.

L'Etiopia è un altro paese lacerato dalle differenze etniche e in cui più realtà hanno denunciato un genocidio ai danni della popolazione del Tigray. In questo caso, gli algoritmi di cui si serve Facebook hanno amplificato i contenuti pubblicati dal regime, dando notevole visibilità a quelli che incitavano all'odio. Un effetto del sistema deficitario della grande macchina che opera in tutto in mondo. Stando a The Verge, agli occhi della tecnologia, il contesto culturale etiope, come quello del Myanmar e del Pakistan, risulta più complesso di quello americano: in altri termini, gli strumenti di Machine Learning e di fact checking, impostati secondo il modello occidentale, hanno difficoltà a rilevare discorsi di stampo razzista e di incitamento all'odio. Per non parlare dei limiti mostrati dall'algoritmo nella traduzione di post e messaggi scritti in lingue straniere.

La rabbia dei dipendenti

Nei documenti resi pubblici dalla whistleblower Haugen sono riportate molte discussioni consumatesi negli uffici e nei gruppi di lavoro del social network. Queste confermano quanto i dipendenti fossero al corrente delle storture algoritmiche che danneggiavano gli utenti. Ciò che li frustrava era dunque una realtà ai limiti del kafkiano, in cui alla consapevolezza generale della disinformazione non seguiva un provvedimento volto a risolvere il problema. Come quando, dopo l'episodio dell'assalto al Congresso, un dirigente ammise che la piattaforma "aveva alimentato questo fuoco per molto tempo e non dovremmo sorprenderci se adesso è fuori controllo". In tutta risposta, un dipendente scrisse su un gruppo di lavoro: "Con tutto il rispetto, non abbiamo avuto abbastanza tempo per capire come gestire la piattaforma senza amplificare la violenza?".

I dati delle trimestrali

In concomitanza con il bombardamento mediatico, Facebook ha pubblicato i risultati del terzo trimestre, esacerbando il contrasto tra la narrazione che il social fa di sé e quella fatta dagli altri. Nei tre mesi che vanno dall'1 luglio al 30 settembre, la piattaforma ha ottenuto 29,01 miliardi di dollari di ricavi: 35 percento in più rispetto allo stesso periodo del 2020, ma inferiori se paragonati ai 29,57 miliardi di dollari pronosticati dagli analisti. Sul fronte dell'utile per azione, sono stati registrati 3,22 dollari, decisamente superiore ai 2,71 dello scorso anno e (quasi) in linea con i 3,19 previsti dal mercato.

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