Come neutralizzi Facebook con un elicottero da guerra? Me lo immagino un manipolo di Cobra ed F16 sulla coloratissima sede di Menlo Park, mentre militari armati invadono sale riunioni, server e aree ricreative. Mi immagino cavi divelti e computer sfasciati, forse qualche lancio di missili. Mi immagino, insomma, qualcosa di simile a quanto avvenuto ieri nel corso del tentato golpe in Turchia, dove i militari, oltre a bloccare strade e ponti, hanno invaso la tv nazionale bloccando le trasmissioni e colpendo la sede con scariche di mitragliatrici e razzi. Ottenendo come risultato la fine delle trasmissioni via etere. Stessa sorte è toccata alla redazione turca della CNN. A documentare tutto una webcam ironicamente piazzata sulla sala della diretta, vuota. Una camera ancora attiva, s'intende, e connessa ad uno degli strumenti che nelle ore successive si sono rivelati fondamentali per la documentazione del tentato colpo di stato, Facebook Live. Ecco, quella camera ha continuato a trasmettere. E allora mi chiedo, come neutralizzi Facebook con un elicottero da guerra?
Torniamo alla sede di Menlo Park, ipoteticamente distrutta da un colpo simile. Basterebbe a chiudere le "trasmissioni"? Probabilmente no, perché i server, sparsi per il mondo, resterebbero lì, intatti. Perché le altre "teste" sarebbero operative, pronte a raccogliere e distribuire i contenuti degli utenti. Lo stesso vale per Twitter, WhatsApp, YouTube e FaceTime, canali inattaccabili con elicotteri e carri armati, sfuggevoli anche in caso di censura attraverso le stesse infrastrutture che fanno uscire il segnale da un paese. Lo hanno dimostrato le ultime ore, il puntuale blocco dei social network in Turchia e l'altrettanto puntuale aggiramento della censura da parte degli utenti. Le innumerevoli dirette in streaming, gli infiniti tweet e persino la videochiamata di Erdogan sono la dimostrazione tangibile di un'epoca che ormai corre più veloce di noi.
Un passo indietro: ieri, negli istanti successivi alla diffusione delle prime notizie sul tentato golpe, ho sentito una ragazza sottolineare il fatto che quello in Turchia fosse il primo colpo di stato visto nella sua vita. Visto. È importante, non è una scelta lessicale casuale. Con i media tradizionali non avremmo mai potuto "vedere" ciò che abbiamo visto ieri: uomini che cercano di fermare carri armati con le mani, elicotteri che colpiscono la tv di stato e militari che sparano sui ponti. Non registrato, non su YouTube: in diretta, dal vivo, dagli occhi di quelle stesse persone che in una mano avevano un smartphone e nell'altra una spranga di ferro.
Non avremmo mai visto un Presidente videochiamare in diretta la CNN dal suo iPhone, utilizzando FaceTime e chiedendo a tutti di scendere in strada. Non avremmo mai visto nulla di tutto ciò. Saremmo stati tagliati fuori dal paese, dai media tradizionali, dalla tv e dalle radio. Avremmo osservato immagini fugaci di militari, forse qualche filmato dei giornalisti sul luogo. Perché il processo del golpe, come scrivevamo questa mattina, segue una procedura ormai canonica: si bloccano gli ingressi e le uscite del paese, si disarma la polizia e si chiudono le trasmissioni. Fino a qualche anno fa tutto questo sarebbe bastato ad escludere la nazione dal resto del mondo e, soprattutto, a non dare la possibilità al vertice del paese di comunicare con chi ancora gli è fedele, di mobilitare persone e polizia, di riaccendere gli animi.
Non si tratta solo di Erdogan e la sua fondamentale videochiamata, ma anche delle continue e incessanti dirette in streaming su Facebook e Periscope, della comunicazione immediata e della martellante mole di contenuti che hanno fatto capire a tutti che la lotta non era ancora finita. Al netto delle motivazioni, delle riflessioni personali sugli eventi e dell'esito politico del golpe fallito, quella di ieri sarà ricordata come una nottata in cui un medium apparentemente scontato ha ottenuto una rilevanza clamorosa e, probabilmente, si è rivelato in grado di ribaltare le sorti del tentato colpo.
"Come fallisce un golpe?" mi ha chiesto una collega dutente le fasi finali. Non lo so come fallisce un golpe, anche io pecco del fatto di non averne mai "visto" uno. Per le persone, ho risposto forse ingenuamente. O forse no, perché alla fine chi ieri cercava di fermare i carri armati con pezzi di ferro erano i turchi, che nell'altra mano avevano uno smartphone in diretta o intento a visualizzare quelle degli altri. E se forse da un lato sarebbe fin troppo ingenuo elevare i social ad "armi" in grado di ribaltare da soli un golpe, dall'altro si dimostrano uno strumento ormai fondamentale per trasmettere quel senso di appartenenza e di condivisione che in una situazione come quella di ieri dà alle persone la forza di proseguire la lotta. D'altronde lo stesso era successo durante le rivolte della Moldavia, dell'Iran e della Primavera Araba, eventi trasformati dall'occidente nella prova vivente di quanto i social fossero diventati una sorta di spauracchio per le dittature. La realtà è però meno drastica, ma anche qui l'elemento clamoroso è la possibilità di offrire una finestra sul mondo senza sfruttare i canali tradizionali, aggirando chiusure e censure, facendo breccia nel blackout dei media tradizionali. Ieri sera, con la videochiamata su FaceTime, abbiamo assistito ad un altro momento storico. Il totale disinteressamento verso il normale processo del colpo di stato, scavalcato da un'infinità di dirette in streaming e da una videochiamata. E contro questi strumenti cosa te ne fai di un elicottero da guerra?