Il movimento Occupy rapisce anche l’Italia: la protesta, le persone e i luoghi visti dal Web
La filosofia del movimento – La semplicità al potere
Cos'è il movimento Occupy? Che cosa rivendica? Come pensa di ottenerlo?
Queste le domande che vengono spesso rivolte all'indirizzo di chi aderisce alla protesta di carattere globale che, poco alla volta, sta coinvolgendo l'intero universo-mondo, tanto che la celebre rivista Time ha scelto di eleggere a persona dell'anno proprio Il Manifestante, ovvero tutti coloro che nel corso di questo concitato 2011 hanno deciso di ribellarsi, di mettere in gioco i propri corpi per urlare a chi di dovere qualcosa di simile a quel che Howard Beale chiede urlare nel bellissimo monologo di The Network (Quinto Potere), vale a dire: "sono incazzato nero e tutto questo non lo accetterò mai più".
Domande come quelle segnalate, a prima vista, parrebbero legittime, finanche ovvie, giuste, ma in realtà tendono a porre l'ipotetico intervistatore su un piano diverso rispetto a chi protesta.
Il focus del movimento vive nell'assunto che sta tutto nel suo slogan: "we are 99%", "siamo il 99%", che è come dire siamo tutti sulla stessa barca, che è come dire che il sogno di un solo uomo è solo un sogno, il sogno di molti uomini è la realtà che comincia (ma qualcuno questo lo aveva già detto). E allora ecco che quelle domande potrebbero essere rigirate al mittente: chi sei? Cosa rivendichi? Come pensi di ottenerlo?
"Siamo il 99%".
È un concetto semplice, tanto che a tratti appare persino naif. Invece, ha tutta la potenza della verità o, meglio ancora, della logica ferrea e inattaccabile.
Basta pensarci: gli esseri umani sono fondamentalmente uguali, non lo sono per sfumature, non lo sono per capacità, non lo sono per formazione, esperienze, convinzioni, ma lo sono nella loro condizione primordiale, quella che li vede tutti alle prese con le medesime questioni esistenziali, quelle proprie di un'umanità pensante e sofferente che non sfugge al confronto con la propria mortalità, con la propria miseria e -al contempo- con il proprio bisogno di felicità, di comunanza, di emozione.
La maggior parte degli uomini vive la medesima condizione di infelicità, di fatica, di insoddisfazione, di corsa folle verso il successo che -anche quando arriva- quasi mai costituisce il raggiungimento della pace. Tutti, prima o poi, fanno i conti con l'insensatezza dell'esistenza umana, i più nascondono le domande dentro se stessi e poi corrono e urlano a più non posso per non sentirne l'eco. Ma, oggi più che mai, il crollo delle certezze materiali ha reso il trucco evidente agli occhi di molti. In tantissimi si sono d'improvviso fermati e, contemporaneamente, hanno cominciato a pensare: ma che stiamo facendo? Perché continuare a soffrire in silenzio, a morire di lavoro, a imprecare per la fame se siamo noi stessi ad aver creato il gioco che ci sta schiacciando? Chi ci impedisce di fermarlo, se -insieme- decidiamo di cambiarlo?
Di nuovo: concetti così semplici da sembrare quasi infantili, eppure nessuno potrebbe mai affermare che siano privi di logica, errati o irrealizzabili. Perché la realizzabilità di quel che appare un ideale utopico -in realtà- dipende solo da se e quando la collettività si convincerà di poter realizzare l'ideale. Insieme. Non occorre altro.
In tanti hanno speso la propria esistenza a convincere gli esseri umani che la macchina infernale del nasci-produci-muori a cui loro stessi avevano dato vita fosse diventata così grande e opprimente da essere immodificabile, per cui tanto valeva (dicevano) studiare il modo migliore per restare a galla, arrendendosi all'idea che non ci fosse altra scelta se non quella di far parte degli ingranaggi e provare a cavarne fuori una vita decente… L'unica alternativa possibile era condurre un'esistenza da asceta o da hippie, ovvero da escluso, reietto, diverso, alieno. Cambiare la comunità mondiale, il cosiddetto "sistema" era un'impresa che non valeva la pena tentare. Molti di quelli, oggi, si sono pentiti e chiedono perdono. Tanti guru del neoliberismo, oggi, sono costretti ad ammettere i limiti della loro visione economica, impostasi soprattutto in virtù di conclamate macchinazioni e spregiudicate operazioni antidemocratiche.
Naomi Klein, tra le più appassionate sostenitrici del movimento Occupy, ha fornito descrizioni fattuali ed esemplari di quanto tutto sia storicamente provabile (e provato). E lo ha fatto nello splendido libro: Shock Economy.
Il neoliberismo non è una condizione naturale. Il sistema economico-finanziario non è inaffondabile. Gli esseri umani possono modificare il corso della storia; possono cambiare le loro esistenze come singoli e come collettività semplicemente rendendosi conto di essere tutti nelle medesime condizioni. Hanno l'obbligo di svegliarsi e premere perché ogni uguale si riconosca come tale e diventi motore di cambiamento. Hanno l'obbligo di piantarla con la guerra dei poveri. Hanno l'obbligo di destituire la politica che ha tradito il mandato democratico garantendo interessi diversi da quelli della collettività.
Questo è Occupy.
Queste le convinzioni prime e ultime del movimento. Questo è quanto migliaia di persone al mondo vanno gridando da mesi. In mezzo e accanto a tutto questo albergano centinaia di proposte, migliaia di piccole rivendicazioni, milioni di pensieri altri, ma il succo del discorso è tutto qui.
La patina di benessere che ha per lungo tempo inebriato l'occidente facendo sì che percepisse la sofferenza che dilagava in gran parte del mondo come qualcosa di cui non era responsabile e per cui poco poteva fare, oggi mostra la corda, si sfilaccia e -improvvisamente- l'insopportabile ingiustizia sociale in cui sempre più persone sono costrette a vivere diventa lapalissiana ed evidentissima.
Ora: cosa succederebbe se gli esseri umani, invece di litigare tra loro per ragioni che vanno dalla fede religiosa a quella calcistica, dal conflitto razziale all'ambizione frustrata, dall'odio di genere a quello sessuale, si guardassero negli occhi, si riconoscessero simili, capaci di cambiare se stessi, e decidessero di procedere insieme verso il miglioramento dello status collettivo e non solo di quello individuale?
La risposta è, ancora una volta, molto semplice: farebbero del mondo un posto migliore per tutti.
Il movimento Occupy crede nella possibilità che tutto ciò sia realizzabile. Ha il coraggio e l'impudenza di affermare che si può fare mentre un frastornante coro di dotti e sapienti ride della sua ingenuità. Ma in qualche caso trattasi di risata isterica, e quindi non classificabile come irridente.
Di contro, poi, non manca chi -come di consueto- è capace di vedere il complotto persino dietro a un movimento che intende far luce sul più gigantesco dei complotti: ovvero l'aver convinto il 99% degli esseri umani che il sistema creato a uso e consumo dell'1% sia naturale, inamovibile, imprescindibile, eterno, indistruttibile, senza alternative, senza uscita. L'unica via, secondo molti, sarebbe quella di adeguarsi, sopravvivere come si può, stringere la cinghia quando qualcuno chiede "sacrificio e pazienza" e sperare nell'arrivo di tempi migliori.
Quando, se e grazie a chi dovrebbero arrivare i fantomatici tempi migliori non è dato saperlo. Perché mai non si possa anticiparli decidendo che il gioco non soddisfa più le esigenze della popolazione mondiale e riprendendosi il diritto a una vita felice e dignitosa resta un mistero.
Per quanto con meno forza che negli USA, il movimento Occupy comincia a prendere forma anche in Italia, dove già si contano una decina di presidi attivi e occupanti e molti altri sembrano delinearsi in forma virtuale.
Abbiamo voluto dare uno sguardo alla realtà italiana attraverso la rete per comprendere quanto il paese è coinvolto nella protesta globale e che possibilità ci sono per il movimento di divampare in maniera più significativa nei prossimi mesi. Ma -soprattutto- ci premeva indagare contenuti e modelli di comunicazione di queste nuove generazioni di contestatori che, a differenza della generazione sessantottina a cui spesso vengono erroneamente accostate, possono godere di strumenti in grado di amplificare le voci e connettere i focolai di protesta.
Abbiamo scoperto uno scenario che -pur non avendo grande eco a livello nazionale- è incredibilmente vivace, soprattutto nelle piccole province, ed è animato da sinceri slanci di cambiamento.
Qualcuno, qua e là, in Italia e nel mondo, accusa gli occupanti di smanie chisciottesche, decretando a priori l'impossibilità della vittoria, l'ovvietà della sconfitta, persino deridendo il tentativo. Il punto è che, se così sarà, la responsabilità non sarà certo di quelli che (se non altro) ci hanno provato.
E quindi scopriamo chi sono e come si muovono gli occupanti italiani.
Premessa di studio
L'enorme desiderio di cambiamento che ha investito il mondo nell'ultimo anno ha determinato un continuo mescolamento di carte; è sbocciata la Primavera Araba, sono esplose le proteste in Grecia, è nato il movimento degli Indignados, poi la Global Revolution, infine Occupy Wall Street. È evidente come ognuna di queste realtà sia figlia del medesimo afflato, dietro ogni protesta soffia lo spirito del tempo, uguale per tutti ovunque, ma la formalizzazione teorica e le pratiche del movimento Occupy sono ciò che costituisce l'oggetto del nostro studio e, pertanto, abbiamo deciso di limitare l'analisi a questo specifico movimento.
Abbiamo deciso di occuparci esclusivamente dei movimenti italiani che si riconoscono esplicitamente nella filosofia di Occupy e che recano la dicitura "occupy" all'interno del nome.
Per comodità di analisi abbiamo suddiviso l'inchiesta in tre macro-aree:
Nei prossimi giorni potrete gustare i tre capitoli dell'inchiesta, le immagini e i video che caratterizzano la piccola ma solida resistenza italiana.