Juan Carlos De Martin: “La Casta può essere anziana, i Pirati no” – Intervista esclusiva
Presentare un personaggio come Juan Carlos De Martin senza incappare nel rischio della celebrazione sic et simpliciter non è facile. Ma se sono i fatti e le esperienze a parlare, allora c'è poco da fare, De Martin merita di essere considerato uno dei più impegnati promotori della rivoluzione digitale, dell'innovazione tecnologica e della democratizzazione dell'accesso alle nuove tecnologie. E fare tutto questo in un paese dove, come lui stesso afferma all'interno dell'intervista che abbiamo realizzato, "tutti gli incentivi convergono verso una ben precisa raccomandazione: non far nulla", ecco che l'impegno assume una qualche sfumatura eroica (volendo essere ottimisti) chisciottesca (volendo essere disfattisti).
A partire dalle sue principali professioni (ingegnere e professore universitario di Ingegneria dell'Informazione del Politecnico di Torino) la vita di De Martin è immersa nella tecnologia e, come se non bastasse, non esiste iniziativa a sostegno di una qualche causa tech che non lo veda coinvolto in prima linea.
Persino le attività collaterali a quelli che rappresentano i suoi principali lavori sono intrise di tecnologia.
Mettetevi comodi, l'elenco di attività e onoreficenze in area tech è piuttosto vasto: Juan Carlos De Martin è coordinatore, insieme al professor Angelo Raffaele Meo – figura pioneristica nel campo dell'elaborazione digitale sei segnali – dell'Internet Media Group; dal 2005 è il responsabile italiano del progetto Creative Commons e co-Chair di iLaw Torino 2005, la prima edizione europea del celebre Internet Law program del Berkman Center for Internet & Society di Harvard; nel 2006 ha fondato NEXA – Centro di Ricerca su Internet & Società, centro che ha l'obiettivo, attraverso progetti e ricerche, di far sì che le potenzialità della rete vengano comprese fino in fondo da più persone possibile; dal 2007 coordina COMMUNIA, progetto eContentPlus finanziato dall'Unione Europea che ha lo scopo di studiare il pubblico dominio digitale; collabora con "Nova" del Sole24ore; è membro dell'Electrical and Electronic Engineers (IEEE); dal 2010 scrive, in qualità di editorialista, per "La Stampa" di Torino; nel giugno 2011 è stato nominato Fellow 2011-12 dal Berkman Center for Internet & Society dell'Università di Harvard; nell'agosto 2011 è stato nominato Senior Visiting Researcher della Keio University (Tokyo) – Internet and Society Laboratory.
Ecco, ora che abbiamo "inquadrato" il personaggio, seppur senza pretese di esaustività, l'intervista che vi proponiamo intende, da un lato, far conoscere approfonditamente le opinioni del professor De Martin su alcuni temi chiave della Questione (non questione) tecnologica italiana , dall'altro approfondire la natura del suo lavoro e delle sue esperienze e -in ultimo- lasciare che i lettori scoprano qualcosa su di lui che nessuno aveva mai raccontato prima.
Buona lettura.
Intervista a Juan Carlos De Martin
In questi anni sei stato molto attivo praticamente in tutte le istanze che, dalla società civile, sono partite all’indirizzo di politica e istituzioni per la promozione di un approccio vitale e “diverso” al web e all’innovazione: da Agenda Digitale a La Notte della Rete contro la delibera Agcom, il tuo nome è sempre presente tra coloro che promuovono un cambiamento nello stile di pensiero. Quali sono, a tuo avviso, le grandi tare del sistema italiano, ovvero quelle che, al momento, frenano lo sviluppo tecnologico e digitale?
Premesso che ho solo cercato di fare il possibile, credo che l'Italia sia frenata da fattori prevalentemente culturali. Fattori che sono presenti anche in altri paesi, ma che da noi sono più forti. Ne cito qualcuno in ordine sparso e senza pretesa di esaustività.
Il "benaltrismo", malattia che affligge molti intellettuali italiani, i quali di fronte a qualsiasi proposta, concludono che è inutile, anzi, è probabilmente dannosa, perché "prima andrebbe fatto X". "X", è appena il caso di dirlo, per definizione non capiterà mai.
Il "dietrologismo cinico", ovvero, nulla è mai come appare. Qualsiasi proposta è in realtà un raffinato piano per raggiungere un obiettivo nascosto. In ogni caso, il proponente è mosso esclusivamente da bieco interesse personale. Se non si riesce a determinare l'interesse personale in gioco, è solo perché il proponente è così diabolicamente bravo da averlo nascosto sufficientemente bene.
Il "non-si-puo-fare", ovvero, la naturale inclinazione a scovare immediatamente tutti i motivi – per quanto improbabili –
per i quali sarebbe meglio cassare la proposta – qualsiasi proposta. Senza naturalmente dedicare la minima attenzione ai potenziali aspetti positivi della proposta stessa. Anzi, non ci sono aspetti positivi. Mai.
Il "coccodrillismo", ovvero, analizzare qualsiasi proposta o progetto cercando di capire come volgerlo a proprio vantaggio, come usarlo per attaccare la persona che sta cercando di portarlo avanti nel caso tale persona sia nostra nemica, eccetera eccetera.
Ecco, mi fermo qui, ma mi sembra di aver almeno abbozzato perché l'Italia sia un paese dove tutti gli incentivi convergono verso una ben precisa raccomandazione: non far nulla.
Non far rumore.
Non fare onde.
Anzi: non fare.
Tra i vari meriti conquistati sul campo, hai quello di essere stato tra i fautori -in Italia- delle licenze Creative Commons. Ci racconti la genesi del tuo incontro con questo modello di protezione del diritto d’autore e il modo in cui l’hai implementato e promosso?
All'inizio dalla grande guerra europea contro i brevetti software del 2002-05 mi sono imbattuto nei lavori e nei progetti di Lawrence Lessig. Era proprio il momento in cui partiva il progetto Creative Commons. Proprio in quei mesi, per un caso incontro il prof. Marco Ricolfi, grande giurista dell'Università di Torino, il quale conosce Lessig di persona. Il resto è venuto da sé.
A che punto è, oggi, il progetto Creative Commos?
È un progetto ormai sostanzialmente maturo. Il suo messaggio è diventato in larga parte mainstream, il che non vuol dire che le licenze CC siano applicate ovunque opportuno, tutt'altro, ma concettualmente è ormai accettato. Rimane ancora molto da fare lato adozione, ma si tratta più che altro di problemi di implementazione, più che di barriere ideologiche.
La tua prima occupazione è senz’altro quella dell’insegnamento universitario. Al momento insegni al Politecnico di Torino presso le facoltà di “Ingegneria del cinema” e “Ingegneria Informatica”, è sempre stato questo il tuo obiettivo: ricerca e insegnamento, o c’era dell’altro nei tuoi progetti adolescenziali e giovanili?
Per quel che può interessare, da piccolo volevo fare, in ordine cronologico: la guardia forestale, il fisico atomico e lo studioso del cervello umano. Sono invece diventato ingegnere. Il caso domina la nostra vita, soprattutto a 18 anni.
Hai vissuto a Santa Barbara, a Dallas, a Torino e ora a Boston (per qualche mese). Quali sono le esperienze più formative, dal punto di vista tecnologico, che hai vissuto in questi tre luoghi? E in che modo ogni luogo ha influito sul tuo percorso?
Torino è la mia città e il mio centro di gravità, da tutti i punti di vista. A Torino vive e lavora il mio maestro, il leggendario prof. Angelo Raffaele Meo, dal quale ho assorbito molte cose, e in particolare la passione per il ruolo della tecnologia nella società. A Torino, inoltre, insegna il mio co-direttore, il prof. Marco Ricolfi, un vero punto di riferimento.
A Santa Barbara ho lavorato con un guru dei segnali digitali, il prof. Allen Gersho, e ho fatto amicizia con ricercatori di varie parti del mondo, amicizie che continuano ancora oggi. Ho anche imparato ad amare la California.
A Dallas ho conosciuto il mondo della ricerca industriale, con alcuni dei migliori ingegneri che abbia mai incontrato. Anche lì sono nate amicizie importanti.
Infine Boston, e in particolare l'università di Harvard, che frequento da anni e dove ora sto passando alcuni mesi in qualità di "faculty fellow". A Harvard lavorano alcune delle persone più straordinarie che abbia mai incontrato, come Terry Fisher, Larry Lessig, John Palfrey, Yochai Benkler, Charles Nesson, Urs Gasser, David Weinberger e tanti altri. Un luogo unico al mondo.
Ho letto che hai scavalcato ben quattro volte l’Appennino a piedi. Non serve uno psicologo per notare come l’idea di mettersi alla prova, superare limiti sia molto evidente in azioni di questo tipo. Cosa ti porta a voler sfidare te stesso?
Si tratta da una parte di desiderio di conoscere meglio l'Italia e dall'altra del bisogno, almeno una volta l'anno, di un contatto diretto, lento, prolungato nel tempo e non mediato dalla tecnologia con la natura e le persone.
Alla prossima tornata elettorale, anche l’Italia vedrà l’esordio del Partito Pirata. In che modo inquadri il movimento nella sua interezza e, nello specifico, la presenza del partito nel contesto italiano?
Vista l'estrema difficoltà, anche per la forza delle lobby, a convincere i partiti tradizionali – in tutta Europa, non solo in Italia – a prendersi cura delle libertà digitali e del problema del copyright (e dei brevetti), era inevitabile che si articolasse prima o poi una forza politica autonoma che mettesse quei temi al centro del proprio programma. La loro presenza amplia di dibattito, rendendolo un po' meno unilaterale, per cui ben venga il Partito Pirata – sperando che tra non molto tempo determinati, valori e obiettivi divengano patrimonio condiviso dalla maggior parte delle forze politiche. In Italia il Partito Pirata nasce (forse) solo ora, per cui è presto per fare analisi. Noto solo che finora sono mancati i giovani: senza di loro non credo che i pirati italiani potranno mai andare molto lontani. La Casta, infatti, può essere anziana – i pirati, no.
Domanda a bruciapelo: cosa pensa di Agcom e SIAE in quanto istituzioni? Credi siano utili ma mal concepite o del tutto anacronistiche?
Per ovvi motivi di spazio dico solo che all'interno sia dell'una sia dell'altra istituzione lavorano persone di grandissimo valore, che hanno davvero a cuore il bene comune. Tuttavia sia l'Autorità sia SIAE sono organizzazioni con problemi molto seri e che andrebbero affrontati al più presto.
Qual è stata l’esperienza più entusiasmante della tua vita dal punto di vista tecnologico?
Subito dopo la laurea progettare (insieme a un bravo ingegnere elettronico purtroppo morto qualche anno fa), costruire e poi programmare da zero un intero set-top box. Emozionante. Fonte di profonda soddisfazione.
Se, domani, avessi la possibilità di compiere una serie di tre azioni nel campo dell’innovazione digitale, da dove cominceresti? Cos’è -per te- fondante e imprescindibile?
– Garantire accesso a internet ovunque e a chiunque, usando tutti gli strumenti possibili. Un accesso di base gratuito dovrebbe essere in qualche forma disponibile a tutti.
– Lottare contro l'analfabetismo digitale. Quasi un italiano su due non ha mai toccato un computer: sono percentuali da Bulgaria profonda, non da nord Europa.
– Redarre un'Agenda Digitale per l'Italia. Non i soliti obiettivi generici, le solite slide retoriche e vaghe, ma un vero e proprio piano di lavoro, con scadenze, responsabili (con nomi e cognomi) e risultati misurabili. Con un "Chief Digital Officer" che coordini il tutto, che riferisca una volta l'anno al Parlamento e agli italiani e che ci rappresenti in Europa.