In Sudamerica esiste una distesa infinita, bianca, purissima. Fa parte di quello che viene comunemente chiamato il triangolo del litio: è il cuore dell'estrazione del materiale necessario per la realizzazione delle batterie inserite nella maggior parte dei dispositivi tecnologici utilizzati quotidianamente e, in particolare, degli smartphone. Il triangolo tocca Cile, Bolivia e Argentina e contribuisce all'estrazione del 57 percento del litio richiesto a livello globale. Una vera e propria corsa all'oro che oggi fa gola a tutte le aziende. E che lascia fuori dai giochi (e dai guadagni) chi in quelle terre ci vive.
Qualche migliaio di chilometri più ad oriente, in Cina, la Foxconn International Holdings è divenuta la più grande produttrice mondiale di componenti elettrici ed elettronici, lavorando su contratto per aziende come Amazon, Microsoft, Motorola, Nokia, Nintendo e Apple. Solo in Cina oggi Foxconn conta 13 impianti industriali, distribuiti in nove città. La più grande è quella di Shenzen con i suoi 300.000 dipendenti: è chiamata iPod City per la grande produzione dedicata ai prodotti Apple. Negli ultimi anni la Foxconn è passata tristemente alle cronache per le condizioni di vita minime in cui devono vivere i suoi dipendenti, schiacciati tra pressioni psicologiche, pestaggi fisici e tempi di lavoro disumani che hanno portato a diversi tentativi di suicidio culminati in un picco tra il 2009 e il 2010, quando complessivamente una ventina di operai – uno dei quali 17enne – si sono tolti la vita gettandosi dal tetto dello stabile.
Eppure, quando si parla dei nuovi smartphone, ci si scandalizza per il loro prezzo.
Nel triangolo del litio le popolazioni residenti allevano lama e capre, masticano foglie di coca e vivono in case di fango costruite su un terreno che nasconde uno dei tesori più preziosi per la Silicon Valley: il litio. Le compagnie minerarie estraggono da anni il materiale dai terreni sudamericani, generando miliardi di dollari di ricavi e attirando l'attenzione di sempre più aziende interessate a quello che viene chiamato "oro bianco". Estratto, com'è facile immaginare, proprio dalle popolazioni sudamericane. Che però da quelle loro terre non guadagnano nulla.
La Minera Exar, un'azienda di estrazione canadese-cilena, ha stretto accordi con sei comunità aborigene per realizzare una nuova miniera nel triangolo del litio. L'operazione ha un valore di 250 milioni di dollari all'anno, ma ogni comunità guadagna solo tra i 9.000 e i 60.000 dollari per il suo contributo. Mentre le aziende attive sul territorio guadagnano centinaia di milioni, le comunità faticano a trovare i fondi per costruire fognature, avere acqua potabile e riscaldare le scuole. "Non mangiamo batterie" si legge su un cartello di protesta piantato nel deserto di sale. "Si prendendo l'acqua e la nostra vita".
In Africa la situazione non è differente: nel 2016 Amnesty ha svelato che nelle miniere di cobalto – un altro elemento fondamentale per la produzione delle batterie – lavorano bambini anche di 7 anni in condizioni dove la sicurezza sembra essere l'ultima delle preoccupazioni. E nessuno sembra volerci fare nulla, nonostante le morti di minatori tra settembre 2014 e dicembre 2015 siano state almeno 80. Quelle accertate, ovviamente, perché molte vengono nascoste dalle stesse pietre che le provocano. Nel 2014 40.000 bambini lavoravano nelle miniere della Repubblica Democratica del Congo, trasportando cobalto per 12 ore al giorno.
Eppure ci si lamenta dei prezzi del nuovo iPhone.
Con l'avvicinarsi del lancio di nuovi prodotti, la produzione di Foxconn si fa sempre più intensa, portando gli operai a lavorare per 14 ore al giorno 7 giorni alla settimana. I lavoratori vivono costantemente dentro la fabbrica, munita di mensa e dormitorio, percependo paghe minime talmente basse da spingerli a chiedere straordinari oltre le 14 ore, che possono però solo richiedere a patto di reclutare altri lavoratori per l’azienda. Nel 2012 150 dipendenti hanno minacciato di lanciarsi dal tetto di uno stabilimento. Sono stati convinti a non farlo con promesse di miglioramenti. Nel 2016 un altro gruppo di lavoratori l'ha rifatto.
Sì, il nuovo iPhone X costa oltre 1.000 euro: è tanto, tantissimo se si considera che il modello da 256 GB ha un prezzo di 1.349 euro. Ma perché scandalizzarsi? Con l'ultimo keynote l'azienda di Cupertino ha realizzato una linea di smartphone che vanno dai 249 dollari dell'iPhone SE ai 999 dollari dell'iPhone X da 64 GB. Se si vuole comprare un iPhone lo si può fare ad un prezzo nella media. Se si vuole comprare l'iPhone 7 (un anno sul mercato) lo si può fare ad un costo totalmente giustificabile. Se si vuole acquistare l'iPhone 8 (simile al 7 ma con diversi miglioramenti legati alle prestazioni) è possibile farlo al solito prezzo di listino. Poi, certamente, se si vuole puntare al top di gamma bisogna spendere di più. Ma l'incremento rispetto al modello "classico", come abbiamo spiegato in un altro articolo, è chiaramente dovuto a dinamiche sia di marketing che di produzione e distribuzione. E, appunto, si tratta di un top di gamma con uno schermo mai visto prima, che si sblocca con lo sguardo, con un comparto fotografico fuori scala e un design che ormai si avvicina al minimalismo puro.
Ciò che stupisce, quando la risposta ad un annuncio è così critica nei confronti del prezzo, è che ci si scandalizza quasi sempre per un elemento che isolato dal contesto è facilmente attaccabile. 1.189 euro per un telefono è una cifra onestamente alta presa di per sé. Se contestualizzata nella linea completa di iPhone, nell'intenzione di Apple con l'iPhone X e nelle nuove dinamiche di produzione richieste dal dispositivo, però, assume un altro senso. Anche perché in quanto top di gamma si posiziona inevitabilmente in cima alla "catena alimentare", proprio come fa una borsa di Louis Vuitton o una scarpa di Gucci. E, proprio come in questi casi, i prezzi sono giustificati (anche) dalla domanda. Che c'è e ci sarà sempre, nonostante il prezzo.
Resta poi sempre sul filo dell'ipocrisia la lamentela per il prezzo – o il "non posso permettermelo"- alla quale non è mai accostata quella per tutto ciò che sta dietro alla produzione del dispositivo e dei suoi componenti, dall'estrazione del litio all'assemblaggio. Due elementi verso i quali Apple si è comunque mossa da tempo, soprattutto sul versante dell'approvvigionamento del litio, nei confronti del quale ha avviato diverse valutazioni relative al triangolo sudamericano per assicurarsi che tutte le compagnie minerarie legate alla mela rispettino gli standard richiesti. Pena l'esclusione dal processo di produzione. Lo stesso è stato fatto, moderatamente, con la situazione all'interno della Foxconn, forse ancora più scomoda perché parte inevitabile di una catena di produzione già in grave difficoltà nel fornire tanti iPhone quanti ne vorrebbe la domanda globale.
Nessuno può impedire le lamentele sul prezzo, ma è impossibile non sottolineare l'ipocrisia di una critica che si presenta ciclicamente all'annuncio dei telefoni e non si manifesta mai quando si tratta di analizzare un processo di produzione che grava fortemente sulle spalle di terre e lavoratori. Il problema degli smartphone da 1.000 euro è il costo? È il fatto che qualcuno decide di spendere i suoi soldi come vuole e lo acquista? O i problemi sono altrove nella catena di produzione e montaggio? Ma soprattutto, se l'iPhone costasse 100 euro ci sarebbero lamentele? Probabilmente no, con buona pace del triangolo del litio tanto esteso quanto distante dalla coscienza degli acquirenti.