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Perché non vietare Instagram agli adolescenti, anche se è pericoloso

Se ne parla da tempo e la testimonianza dell’ex dipendente Frances Haugen non ha fatto altro che confermarlo: Facebook, Instagram e gli altri social network hanno conseguenze sulla salute mentale degli utenti molto giovani, in particolare sulle ragazze adolescenti. Ne abbiamo parlato con Arianna Capulli, psicologa molto attiva proprio sui social network.
A cura di Maria Cafagna
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Abbiamo dato Facebook per morto talmente tante volte che ormai non fa più notizia. Eppure nelle scorse settimane l’azienda di Mark Zuckerberg è tornata a far parlare di sé: Frances Haugen, ex dipendente di Facebook ha raccontato sui media alcuni dettagli molto gravi, per quanto risaputi, sulle conseguenze dei social network sulla salute mentale degli utenti. Nei rapporti fatti trapelare da Haugen, si fa riferimento in particolare all’impatto dell’uso di Instagram sulle persone molto giovani, in particolare sulle ragazze adolescenti. Ne abbiamo parlato con Arianna Capulli, psicologa molto attiva proprio sui social network.

Dottoressa Capulli, in base alla sua esperienza come psicoterapeuta, trova un riscontro nel rapporto condiviso da Frances Haugen?

L’esperienza clinica, se non supportata da un lavoro di ricerca, non fornisce dati certi. Sicuramente è una finestra vista mondo e il panorama che si può ammirare non è sempre un cielo azzurro, ma neanche sempre una tempesta.

Chi fa questo mestiere, oggi, non può non considerare l’influenza che i social esercitano sulle persone, soprattutto sui più giovani. Da professionista della salute mentale mi interrogo anche su quali siano le possibili ragioni, individuali e ambientali, che spingono un adolescente a subire l’influenza, quando negativa, del mondo digitale. Le piattaforme hanno le loro responsabilità, ma non vorrei si rintracciasse solo nell’utilizzo dei social network la matrice del disagio giovanile. Il rischio, seppur alto, non è un pericolo, ma lo diventa se non lo si riconosce come tale.

In che modo Instagram può compromettere il benessere degli adolescenti?

Il social è uno strumento utile al perseguimento di diversi obiettivi, un’opportunità se l’utilizzo che se ne fa è un utilizzo consapevole, se si ha la capacità di comprendere cosa sia Instagram, quale sia lo scopo di chi gestisce la piattaforma e la rende fruibile gratuitamente; la capacità di accettare che lo strumento non solo si serve di filtri, ma è esso stesso filtro. Sicuramente l’illusione che quello che si vede sia la realtà alimenta un ideale dannoso di perfezione, che riguarda i corpi, le vite patinate ricche di successi, ma anche tanti altri aspetti rispetto ai quali nasce la necessità di omologarsi per riconoscersi ed essere riconosciuti, e questo può condurre a trascurare le proprie preferenze.

L’uso consapevole di qualunque strumento prevede le fasi di conoscenza e di critica, fino alla scelta. Il rischio è che il social diventi un bisogno, più che una scelta. Laddove il bisogno si sostituisce alla scelta è possibile che tali fasi vengano ignorate, in funzione della soddisfazione immediata di quel bisogno quindi della “ricompensa” che ne deriva.

Esistono differenze sull'impatto di Instagram tra ragazze e ragazzi?

Ipotizzo di sì, soprattutto dal punto di vista qualitativo. Il bisogno d’approvazione, soddisfatto o meno in base al riscontro/rinforzo che si riceve, è comune a entrambi i sessi, ma Instagram, in modo particolare, riflette, in parte, forse in modo esasperato, alcune pressioni alle quali le ragazze sono esposte ogni giorno anche nella società.

Noi adulti siamo immuni da questo tipo di fenomeni?

Alcuni adulti, a parer mio, sono forse più esposti. Quando smettiamo di interrogarci sui limiti di ciò che abbiamo davanti perché convinti di poterlo gestire al meglio, il rischio aumenta.

Anche durante la nostra adolescenza gli esperti ci mettevano in guardia su modelli apparentemente nocivi – penso alle veline o ai calciatori ad esempio – qual è la differenza tra i modelli proposti da Instagram e quelli a cui siamo stati esposti noi Millennial?

Il livello d’esposizione, con lo smartphone tra le mani a ogni ora del giorno e della notte, non è il medesimo.
Il modello apparentemente nocivo era soggetto all’interpretazione di chi lo reputava tale, ma era reale, verosimile. Quello che vediamo su Instagram e che iniziamo a desiderare, soprattutto se ignoriamo le nostre preferenze e le nostre reali risorse, potrebbe sembrarci, spesso, l’unica possibilità che abbiamo. Ma cosa succede se non sono incline o non ho le risorse necessarie a conquistare quell’unica possibilità? Mi frustro o mi adeguo.

Molti genitori oggi sono propensi a vietare i social, è l'approccio giusto?

Non è un approccio utile. Ascoltare, informare e comunicare, sono azioni utili. Negare la possibilità di utilizzare lo strumento non insegna a saperlo utilizzare in modo corretto, quindi a tutelarsi. Vietare i social, in adolescenza, oggi, rischia di acuire il vissuto d’emarginazione quindi di alimentare il bisogno di accettazione. Alcuni autori hanno evidenziato la necessità di implementare gli interventi di prevenzione in ambito domestico e scolastico, sull’utilizzo consapevole.

I social possono creare dipendenza?

Sì, soprattutto quando diventano, per chi li utilizza, un modo per gestire alcune difficoltà e/o vissuti emotivi. Come le dicevo, quando la persona pensa d’aver bisogno di qualcosa (o di qualcuno) per raggiungere uno scopo che altrimenti, in autonomia, non raggiungerebbe, è lì che è possibile si insinui una forma di dipendenza. Si è osservato che alcune persone che fanno un uso eccessivo e/o compulsivo della rete e dei social network sviluppano sintomi comuni a diverse forme di dipendenza comportamentale.

Sempre più persone sentono il bisogno di "disintossicarsi" dai social network, quanto aiutano questi periodi di pausa?

Anche in questo caso, quello che determina l’esito, positivo o meno, è il processo decisionale. Se scelgo di prendere una pausa e conosco i motivi che guidano la mia scelta così come gli obiettivi che voglio raggiungere, allora può essere utile. I modelli relativi al trattamento della dipendenza da internet non indicano l’astinenza totale come intervento potenzialmente efficace. Sarebbe impensabile, oggi, un intervento di questo tipo.

Molti psicologi e psicoterapeuti utilizzano i social network spesso in maniera non proprio ortodossa (penso ai video su TikTok usati per raccontare patologie anche gravi), è d’accordo con questo tipo di approccio ai social?

Sulla regolamentazione della divulgazione a mezzo social siamo un po’ indietro. I codici deontologici, e mi riferisco qui a tutte le professioni che ne prevedono l’osservanza, non menzionano ancora le buone pratiche da seguire nell’utilizzo dei social. Certamente è possibile applicare le norme esistenti all’utilizzo dei social per motivi professionali, ma la libera interpretazione, talvolta, confonde e, nel peggiore dei casi, giustifica comportamenti poco condivisibili.

La divulgazione è uno strumento di conoscenza volto all’acquisizione di maggiori e più utili consapevolezze e, in quanto tale, va curata minuziosamente. Le faccio un esempio: la fruibilità di informazioni relative alla diagnosi di un disturbo mentale, se da un lato stimola una maggiore conoscenza, dall’altro rischia di far sì che le persone si ritrovino tra le mani informazioni parziali, poco accurate senza sapere cosa farsene. Considero la divulgazione a tema salute mentale parte del processo di prevenzione e siamo formati per fare prevenzione. La prevenzione è già un intervento e, per questo, sarebbe un grave errore pensare di farla improvvisando.

Lei è molto attiva su Twitter e Instagram e non ha paura di esporsi o di raccontare la sua vita privata, come vivono questa scelta i suoi pazienti?

I miei profili Twitter e Instagram non sono pagine professionali. Trovo sia importante che i professionisti non neghino a loro stessi la possibilità di fruire dei social liberamente, seppur nella tutela delle persone e della professione tutta, quando veicolano contenuti che hanno a che fare con le loro competenze. Per quanto mi riguarda, è altrettanto importante che i miei pazienti sappiano che dietro la professionista c’è innanzitutto una persona. Riconosco d’avere una responsabilità, ma la gestione del “setting”, oggi, riguarda anche questo aspetto. Trovo sia corretto adeguarsi ai tempi che corrono, soprattutto in relazione alle esigenze delle nuove generazioni.

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