Pubblicata sulla rivista Nature Communications, una nuova tecnologia per le batterie promette di riuscire a sfruttare in pieno tutte le capacità del grafene (un foglio a due dimensioni dello spessore di un atomo di carbonio, scoperto nel 2004 da due ricercatori russi che nel 2010 hanno vinto il premio Nobel). Il team che è riuscito nell'impresa è capitanato da Alessandro Baraldi, docente di Fisica della Materia dell'Università di Trieste e responsabile del Laboratorio di Scienze delle Superfici del centro Elettra Sincrotrone Trieste, ed è nato grazie a una collaborazione con altri team di ricercatori del Consiglio Nazionale delle Ricerche di Regno Unito, Danimarca e Spagna.
Fin qui tutto semplice, verrebbe da dire. Non più smartphone da ricaricare due volte al giorno, quindi, ma dispositivi con batterie super cariche, in grado di durare più a lungo e surriscaldarsi meno, il tutto grazie a un materiale la cui principale caratteristica è quella di trasportare gli elettroni a temperatura ambiente. In realtà però, le cose sono molto più complesse di quel che sembrano, e quanto descritto avviene esclusivamente se il grafene è isolato: finora non si era ancora trovata una tecnica per combinarlo con altri materiali senza danneggiarne la struttura e renderlo così meno efficiente.
"Siamo orgogliosi" – osserva Baraldi – "Di avere aggiunto un nuovo piccolo tassello al complicato puzzle che, quando completo, consentirà di passare dall'era del silicio all'era del grafene. Il grafene ha l'eccezionale capacità di trasportare gli elettroni a temperatura ambiente e con essi la corrente elettrica. Questo però avviene quando il grafene è «da solo» e finora non è stato possibile combinarlo con un altro materiale senza danneggiarne la struttura e senza renderlo meno efficiente".
"Nei dispositivi elettronici dove il grafene verrà impiegato sempre più diffusamente" – prosegue Baraldi –"Come smartphone, schermi flessibili e celle a combustibile, le sue proprietà vengono irrimediabilmente degradate durante il processo di trasferimento dalle superfici dei metalli sui quali viene cresciuto alle superfici dei materiali ai quali deve essere abbinato».
La tecnica messa a punto quindi, risolverebbe il problema: "Abbiamo cresciuto il grafene sulla superficie di una lega di nickel-alluminio" – ha spiegato Luca Omiciuolo, il primo autore della pubblicazione nonchè studente del dottorato in Nanotecnologie dell'Università di Trieste – "Successivamente abbiamo ossidato in modo selettivo gli atomi di alluminio posti al di sotto del grafene fino a formare uno strato dello spessore di circa 2 milionesimi di millimetro (nanometri) di ossido di alluminio, in modo così efficace da ripristinare le proprietà elettroniche che rendono unico il grafene nel suo stato isolato".
Ma c'è un ma.
La guerra delle super batterie
Come se non bastasse, a complicare ancora di più le cose è c'è un piccolo particolare, che vede protagonisti due team di ricerca separati e del tutto indipendenti tra loro, entrambi italiani, che hanno annunciato la propria scoperta.
A genova, lo scorso agosto, il team genovese di Vittorio Pellegrini e Bruno Scrostati ha collaborato con il CNR e la Sapienza di Roma per riuscire a mettere a punto una batteria che grazie ad un anodo trattato con il grafene, che sarebbe in grado di garantire un’efficienza superiore del 25% rispetto a una tradizionale batteria al litio. Un quarto in più di alimentazione, che può essere utilizzata per auto elettriche o i vari dispositivi elettronici, dagli smartphone ai tablet ai personal computer.
Una tecnica molto simile a quella pubblicata da Nature Communications alla quale ha lavorato il team di Trieste quindi, che per ora apre un giallo che solo il tempo riuscirà a risolvere.