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Vittorio Zambardino da Repubblica al futuro del Web: usiamo la rete “finché è libera”

Vittorio Zambardino, giornalista de La Repubblica, ripercorre in questa intervista rilasciata a Dialoghi Digitali la sua lunga carriera nel mondo dell’informazione online, dalla fondazione di Kataweb fino alla nascita di Repubblica.it.
A cura di Redazione Tech
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Vittorio Zambardino de La Repubblica parla della sua esperienza, di attualità e del futuro della rete nella nuova intervista di Dialoghi Digitali. Il giornalista del quotidiano che meglio di tutti, in Italia, ha saputo affrontare le sfide rappresentate dal Web ripercorre la sua carriera da pionere di internet, fin dal volume datato 1995 e precedente alla fondazione di Repubblica.it, "Internet. Avviso ai naviganti".

Zambardino inoltre dice la sua a proposito dei temi più attuali connessi alla rete oggi, compresa la recentissima vicenda che vede coinvolti Google e la Cina, una "guerra di una grande azienda a uno stato".

In merito all'evoluzione dell'informazione online il fondatore di Kataweb non lesina critiche alla struttura del sistema pubblicitario e, per quanto riguarda in particolare l'Italia, alla stessa categoria dei giornalisti. Ma la capacità aggregativa di internet "fa paura a molti e la rete va ancora usata per questo, finché è libera", sottolinea Zambardino, che annuncia anche di essere in procinto di terminare il sodalizio con Carlo De Benedetti.

La prima edizione del suo "Internet. Avviso ai Naviganti", scritto con Alberto Berretti, è datata 1995. Nel volume si legge: “modelli radicalmente nuovi di comunicazione vanno imponendosi: avranno la portata dell’invenzione della stampa e della televisione, ma senza i limiti fisici della prima e le forme accentrate e autoritarie della seconda”. 15 anni fa era già tutto così chiaro?

"Sia io che Berretti eravamo topi di Bbs, di telematica ante internet – nomi noti: nodi universitari (Berretti è un docente di matematica) o cose come Compuserve, The Well e in Italia Agorà Telematica. Ora io credo che il mondo sia un po' troppo affollato di gente che l'aveva detto, non vorrei aggiungermi al numero. Mettiamola così: noi avevamo intuito che quello strumento (il computer + la comunicazione interattiva), che metteva nelle mani di tutti una possibilità di espressione, creava perciò stesso una crisi di rappresentanza e di rappresentatività dei media. Poi, certo, avevamo in testa cose molto 1.0…"

Lei è uno dei coordinatori del progetto Repubblica.it, online dal 14 gennaio 1997 e in breve tempo impostosi come sito web più cliccato del nostro Paese. Nel corso degli anni quali fattori hanno portato a un tale successo?

"Non sono diplomatico, ma fedele ai puri fatti, se dico che il primo fattore è che l'azienda ci abbia messo i soldi e la direzione lo abbia lasciato prosperare. In altri giornali non è andata così. Certo era una creaturina fragile, sulla quale si è sempre scommesso poco, ma ha restituito ogni goccia d'acqua messa nel vaso. Il fattore del successo era l'aver capito che non si doveva fare un supplemento del giornale, ma il giornale tout court. E' la cosa un po' più difficile da digerire per lo stesso giornale, per tutti i giornali, infatti mi pare un problema aperto per tutti, quello di essere sulla rete e fino in fondo ciò che si è su carta e quindi essere una cosa nuova. Resta sempre questa idea che la carta sia il canale privilegiato. Una svista che potrebbe esser pagata cara in futuro.

Però tra i fattori di successo metterei una cosa umana, non aziendale: un certo stakanovismo del gruppo di lavoro, carattere originario mai smarrito, nemmeno oggi. Orari e forme di dedizione che farebbero orrore a qualsiasi redattore sindacalizzato (la parola non va intesa in modo letterale, ma come indice di una mentalità). Però il gioco sulla rete o lo fai così o non lo fai".

Nel 1999 partecipa alla fondazione di Kataweb, che negli anni a venire si affermerà come uno dei portali italiani di maggiore interesse. Con quale obiettivo nacque?

"Kataweb come portale era una grande idea, oggi sarebbe potuto essere un vero e proprio polo multimediale web based, ora che ce ne sono le condizioni – ricordiamo che al tempo le connessioni veloci erano a 57,6, niente Adsl, niente banda larga. Sarebbe stata una metamorfosi compiuta, quella di un editore che si fa piattaforma multimediale. Va detto, a onore del vero, che nessuno nel mondo è davvero riuscito a tanto, in questi anni. Ma questo era, o almeno sembrava, l'obiettivo di partenza e secondo me perseguibilissimo soprattutto quando il web 2.0 avrebbe abbattuto costi che all'epoca sembravano pura follia (penso ai sistemi editoriali).

Ci si distrasse lungo la via. Mettiamola così, come scommessa editoriale era davvero l'idea vincente. Non fu altrettanto vincente quando ci si fece travolgere dallo spirito del tempo di allora, quello del sulla rete tutti fanno tutto. Quello fu un errore. Come fu un errore, collegato al precedente, il perseguire a tutti i costi la quotazione in borsa, fatto che comportò sovraccarichi operativi di non poco conto e paradossi einsteiniani sulla curvatura dello spazio aziendale. Invece l'idea editoriale è sopravvissuta. Anche se in modo molto più sommesso di quanto avrebbe potuto. Si poteva fare di più, ma lo scoppio della bolla portò ad una crisi di avarizia le cicale che avevano cantato troppo forte: in una notte si fecero formiche desiderose di scomparire nella tana. Non si credeva più nel Web (altri, nel mondo, chiusero del tutto le loro operazioni, forse le formiche nostre non erano così avare dopo tutto), e si è potato l'albero un po' troppo in fondo: così il bambino è cresciuto in un adulto solido ma di bassa statura".

Sempre in nel suo libro pubblicato nel 1995 sottolineava come gli unici a guadagnare dalla rete fossero a quei tempi i fornitori d’accesso, mentre tutti gli altri erano in fase di sperimentazione. Siamo ormai nel 2010 ma le sperimentazioni continuano, in particolare per la ricerca di un business model efficace. Quali sono le principali difficoltà relative alla monetizzazione del traffico?

"A guadagnare sono ancora e sempre i fornitori di accesso, cioè la compagnie telefoniche fisse e mobili, oltre che il grande mediatore universale. Quello con due O nel nome. In ogni caso la rete ha questa tendenza insopprimibile: che distrugge le vecchie mediazioni (bene) e crea nuovi mediatori (maluccio). Cosa vuoi monetizzare se, per poter vendere un tuo prodotto, devi cedere il 70 o l'80% del valore a un gatekeeper come Amazon (parlo del Kindle)? Cosa vuoi monetizzare mai se il valore della pubblicità viene stripped to nearly zero da chi ha inventato forme nuove della pubblicità e ne decide prezzi, dinamiche di vendita e gerarchie? Io non credo nell'esistenza dei cattivi, ma l'inferno esiste, ed è questo. Bisognerà pur pensarci. Io e Massimo Russo l'abbiamo fatto in Eretici Digitali, anche con qualche proposta…"

Carlo De Benedetti a Il sole 24 ore ha recentemente dichiarato: “il problema è che oggi nel mondo dei media c'è uno squilibrio evidente a favore di Google”. Lei a proposito dell’affaire Google-Murdoch si è mostrato piuttosto critico nei confronti del tycoon australiano. Qual è il destino delle news on line?

"De Benedetti ha ragione sul punto di Google, quella è una parte decisiva del problema. Ma Murdoch somiglia, non so se ricorda il film, credo fosse il Naufragio del Poseidon, a quel leader di un gruppo di naufraghi che porta i suoi seguaci giusto dentro l'abisso. La via di Murdoch porta i giornali nel ghetto. Poi nel ghetto si può anche distillare una grande sapienza destinata a illuminare l'umanità: ma sei debole, maledettamente debole. Lo so, l'altra strada, quella del web aperto è dolorosa, ma De Benedetti è un imprenditore coraggioso, capirà che quella è la strada giusta (disclaimer: l'ing De Benedetti presto non sarà più il mio editore e datore di lavoro, quindi non sto facendo alcuna captatio verso di lui)".

Dopo lo Iab Forum di Milano tenutosi a novembre su Scene Digitali ha titolato: “Giornalismo allo Iab: ovvero di un dibattito vecchio che si potrebbe fare meglio”. Layla Pavone, presidente dello Iab, attraverso Dialoghi Digitali ha risposto sottolineando come l’intenzione di organizzare una tavola rotonda sul tema ci fosse, ma sono stati i direttori a declinare l’invito. Nel 2010 al forum il giornalismo online avrà finalmente l’attenzione che merita?

"Non vorrei distrarmi dietro una mancata tavola rotonda. Avranno avuto qualche problema, che ne so, se lo ricorda i Blues Brothers (Avevo avuto un incidente, c'era il funerale di mia madre, le cavallette!!!). Layla l'ha presa male, la capisco, è giusto. Ma – più in generale – non ho mai capito perché chi vende la pubblicità in questo paese lo faccia con così poco amore per il prodotto. Spendiamo lunghi convegni a parlare della rete, del cliente, di fare cultura (lo IAB Forum somiglia molto a se stesso, negli anni…), ma le potenzialità interne, la ricchezza del prodotto, quella non la vede nessuno. Non sto scusando editori e giornalisti, portano colpe da inferno profondo, ma sto dicendo che bisogna insistere, e portare amore a ciò che si vende. Capirlo. Il pubblicitario su web è culturalmente formattato dalla cultura delle grandi organizzazioni della pubblicità internazionale, una nobile retroguardia dello sviluppo. Oppure perde i suoi giorni dietro miti tecnologici spaccabit da Silicon Valley… Poi l'Italia è l'Italia, ci sarebbero cose da dire sulla pubblicità come sistema feudale, ma qui mi fermo".

Rimanendo in tema, l’evoluzione del web sta influendo profondamente sulle professioni dell’informazione. Siamo destinati a dire addio alla figura del giornalista, quanto meno nell’accezione finora conosciuta?

"Questa domanda diventerà presto un tormentone come Quale rapporto c'è tra giornale di carta e giornale internet?. Mi ha perseguitato per anni, nei miei colloqui con gli studenti – non insegno, ma mi piace dare una mano quando me la chiedono. Per tornare al punto della domanda, è un processo già in corso: i grandi inviati scrivono per il web, i nuovi giornalisti sanno fare più cose, usare macchine nuove e fonti digitali. Ma va tutto molto piano: l'illusione del pagamento sta ritardando ancora di più processi che le aziende avrebbero dovuto innestare da tempo nelle redazioni, dove i colleghi giovani si dilettano di archi di impegno e di multimediale (nel loro linguaggio è il lavoro sul web, come se uno dicesse dell'automobile, la stradale). In questa situazione pare che il problema sia solo far fuori i vecchi per scrivere e guadagnare di più (disclaimer: come sopra).

C'è una versione imprenditoriale e una sindacale dell'innovazione controllata, entrambe coincidono nella generale azione di frenata e conservazione. Credono di essere l'angelus novus di Benjamin, che andava verso il futuro malvolentieri ma spinto da un vento potente che dal Paradiso soffiava nelle sue ali, ed era il vento del futuro. Ma noi siamo angeli caduti, al massimo ci tocca uno spiffero. Stanno discutendo di briciole, mentre la tempesta si avvicina. E mentre il governo predispone un quadro di norme repressive delle potenzialità di sviluppo della rete di cui la categoria si fa complice oggettivo. Ha presente quel riproduzione riservata in coda ai pezzi?"

Dopo l’aggressione subita dal premier a Milano il Governo ha dato chiari segnali della volontà di intervenire sul Web. La sua posizione è stata fin da subito in “difesa” di internet, anche con lo slogan Libera rete in libero Stato. Quali sono i rischi di un’azione del Governo?

"Sono rischi gravi, che corrono consapevolmente. Quando si pensa di risolvere il problema, creato in laboratorio, degli eccessi su Facebook attraverso un filo diretto con i responsabili del social network – chiudimi questo, controlla quello – si realizza una sorta di consociazione della censura. Con tanti saluti allo stato di diritto. Poi c'è l'idea di proteggere i business costituiti – musica, video, e anche stampa – contro i barbari del web, cioè noi tutti che qualche volta abbiamo scaricato una canzone. Poi imponendo limitazioni assurde a chi fa un po' di web tv amatoriale. Quindi quella di caricare gli utenti della rete di responsabilità che altrove vengono prese da aziende e soggetti forti: diffamazione, diritto di rettifica, obbligo di registrazione.

Avranno un solo grande successo: riusciranno a fare di questo paese un caso di arretratezza e ottusità conservatrice. Del resto è ciò che vogliono, espropriare gli individui della possibilità di pesare ed esprimersi. Non mi pare che l'opposizione, che pure dice cose diverse, abbia programmi così diversi nella pratica, e in ogni caso è fuori gioco. Pessima situazione".

L’ultima indagine Istat mette in evidenza come in Italia la diffusione di computer e internet sia in aumento, ma il nostro Paese continua a essere tra gli ultimi in Europa (in particolare per quanto riguarda la banda larga). Di chi è la responsabilità di questo ritardo?

"Devo dire banalità? Di chi – su entrambe le sponde – ha governato negli ultimi quindici anni. Attualmente di chi frena consapevolmente lo sviluppo della rete perché ne teme l'effetto dissolutivo dell'audience televisiva. Vogliono incatenare gli italiani alla dieta mediatica televisiva. Una obesità mediatica di stato"

Il suo nuovo libro, Eretici digitali (scritto con Massimo Russo), è una sorta di guida per salvare la rete. “Crediamo che nel digitale ci siano i nuovi padroni dell’economia della conoscenza, non più buoni e più liberi dei padroni di prima”, scrivete. Per salvaguardare la rete il ruolo del cosiddetto “popolo di internet” quanto è importante?

"Se chi usa la rete – a prescindere dalla sua collocazione politica – vedesse che è suo specifico interesse di cittadino sfuggire a vecchi disegni e nuovi padroni (Telecom, nuovi gatekeeper, ma anche i vecchi politicanti che odiano i gatekeeper), potrebbe far molto. Fa paura la capacità aggregativa della rete, fa paura a molti e la rete va ancora usata per questo, finché è libera. La rete è uno dei terreni dove oggi va difeso lo stato di diritto, e il diritto degli individui ad esprimersi liberamente come da Articolo 21 della Costituzione".

Franco Bernabè a Dialoghi Digitali ha dichiarato di credere nella creazione di una valley dell’innovazione e della tecnologia nel Sud Italia, da lui definito “bacino di grande ricchezza inventiva”. Condivide quanto sostenuto dall’AD del gruppo Telecom Italia?

"Credo in un alveare di libere api, che in regime di net neutrality, producano il loro miele senza portarlo all'ammasso. Non in buro-idee da capitalismo italiano. E chiedendo scusa alla parola capitalismo".

Infine, tema di strettissima attualità, Google ha comunicato di non essere più disposto ad accettare la censura del Governo della Cina. Qual è la sua opinione in merito alla vicenda?

"E' una prima volta sulla scena internazionale, questa guerra di una grande azienda a uno stato. L'azienda non è proprio ciò che dice di essere (Don't be Evil), ma nel caso specifico mi pare abbia ragione. Soprattutto su un principio: non puoi, nel nome dei tuoi principi che poi sono quelli di uno stato di polizia, sottopormi a spionaggio industriale. Nè puoi permettere che questo avvenga impunemente.

E resta aperta la questione del merito delle leggi locali, che sono leggi poliziesche, repressive, totalitarie. Google dice che non vuole più bere questa medicina indigeribile. E con questo apre un bel tema, quello del conflitto tra la giurisdizione locale e la cultura aziendale. Dove il problema è: d'accordo niente censura degli stati, ma quali sono le regole per le aziende? Quelle accomodanti di chi collabora con ogni stato o quelle rigide del democratico Google? Forse ci vuole qualcosa di scritto a livello internazionale, la sottoscrizione di principi, dovrebbero pensarci".

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