Le applicazioni di messaggistica istantanea dovrebbero pagare una tassa per l'utilizzo delle infrastrutture appartenenti agli operatori di telefonia. È la proposta del Garante per le Comunicazioni, che nell'indagine sui servizi di comunicazione elettronica spiega come realtà del calibro di WhatsApp, Telegram e Messenger sfruttano reti mobili e fisse pagate dalle telco e numeri di telefono acquistati dallo Stato senza sborsare un euro. Si parla, quindi, di una sorta di "pedaggio" da pagare agli operatori per poter transitare sulle loro reti, pattuito attraverso una negoziazione e che sia "equo, proporzionato e non discriminatorio". Anche per evitare di tagliare fuori dal mercato le realtà più piccole.
In cambio, l'Agcom pensa a soluzioni che possano generare introiti per queste realtà, come la possibilità di scalare il credito degli utenti attraverso la vendita di servizi aggiuntivi. Un bilanciamento inevitabile, anche per non far scappare le applicazioni dal mercato italiano imponendogli solo una tassa in più. È altrettanto vero, però, che queste app non offrono acquisti in-app, quindi la concessione potrebbe comunque non influenzare le rendite di queste realtà. Persino WhatsApp ha abbandonato il canone annuale di 89 centesimi, eliminato lo scorso gennaio.
Le rendite arrivano anche e sopratutto dalla profilazione degli utenti e dalla vendita di queste informazioni a terzi, elemento che chiaramente non prevede un esborso da parte degli utilizzatori. Anche per questo l'Agcom vorrebbe imporre alle applicazioni di messaggistica la necessità di ottenere un titolo abilitativo per poter operare in Italia, un elemento per il quale le aziende americane dovrebbero sottostare alla nostra legge sulla privacy, aprire un call center italiano per gestire le problematiche e consentire le chiamate d'emergenza gratuite ai numeri 112 e 113.