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Opinioni

La pericolosa posizione di Facebook su Trump non è libertà di espressione, è tutela del suo business

“La storia non ci giudicherà con gentilezza”. Lo ha scritto un dipendente di Facebook in risposta alla decisione di non voler prendere provvedimenti per i post di Donald Trump, gli stessi limitati da Twitter. “Libertà di espressione” dice Zuckerberg, ma è davvero così? O Facebook ha troppi business da proteggere da eventuali ritorsioni di Trump?
A cura di Marco Paretti
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Zuckerberg Georgetown

È inutile girarci intorno: c'è un enorme problema con i post di Trump su Minneapolis. Le pericolose ombre evocate dalle parole "when the looting starts, the shooting starts" richiamano un momento storico estremamente complesso e violento degli Stati Uniti. Lo fanno a un giorno di distanza dalla morte violenta di George Floyd per mano di un poliziotto e durante i conseguenti pesanti scontri di Minneapolis. "Quando inizia il saccheggio, iniziano le sparatorie". Forse non tutti conoscono la storia di questa frase, ma di certo Twitter sì, così come Donald Trump, nonostante lui affermi il contrario. Chissà se Zuckerberg la conosceva, ma di certo la sa ora. Eppure la differenza delle risposte messe in atto nei confronti del messaggio di Trump è lampante: da un lato la limitazione del messaggio, la segnalazione come "glorificazione della violenza" e l'oscuramento del tweet nel feed. Dall'altro lato il nulla. Su Facebook quel messaggio è ancora lì. "La nostra posizione è quella di consentire quanta più espressione possibile" ha scritto Zuckerberg. Ma è davvero così?

"When the looting starts, the shooting starts"

Trump non è di certo il primo americano ad affermare questa frase. Prima di lui, nell'era dei diritti civili, lo aveva fatto Walter Headley, il capo della polizia di Miami. Era il 1967 e Headley stava annunciando l'inasprimento delle politiche di controllo dei quartieri neri della città. "Non abbiamo avuto nessun problema serio con le rivolte civili e i saccheggi perché ho fatto capire che quando iniziano i saccheggi, iniziano le sparatorie" aveva affermato durante un'udienza il 27 dicembre 1967. "Questi sono i miei ordini: non tre giorni da oggi, ma ora. Questa è guerra". Il risultato? Pattuglie di poliziotti armati di fucili a pompa e cani, autorizzati ad attuare politiche di controllo aggressivo – stop-and-frisk – che prevedevano il fermo e la perquisizione dei neri in ogni momento.

Le politiche di Headley puntavano a colpire la fascia di giovani neri tra i 15 e i 21 anni che, secondo l'allora capo della polizia, stavano "sfruttando le campagne sui diritti civili". Qualche mese più tardi, l'utilizzo della frase e l'applicazione delle nuove misure hanno portato a un aumento delle rivolte e dei conflitti civili che hanno macchiato la storia americana e hanno causato la morte di molti cittadini neri. Arthur McDuffie, per esempio, un uomo che nel 1980 è stato picchiato da dodici poliziotti per essere passato con il rosso a un semaforo. È finito in coma ed è morto pochi giorni dopo. Ed è tutto partito dalla frase "when the looting starts, the shooting starts". Parole peraltro riprese più volte nella storia americana da figure segregazioniste, come il candidato alla presidenza George Wallace. Eppure Trump in conferenza stampa ha spiegato di non conoscere questa storia.

La decisione di Twitter

In questo contesto la scelta di Twitter è comprensibile e, anzi, giusta: il tweet è nascosto dietro un avviso, la sua reach è limitata e non può essere retwittato, commentato o messo tra i Mi piace. "Glorifica la violenza" ha spiegato il social. Ed è vero. La linea scelta da Facebook, invece, è diametralmente opposta: quel post non va toccato e deve rimanere online senza limitazioni né avvisi. Deve farlo, secondo Zuckerberg, perché Facebook non vuole limitare la discussione politica. Ma è davvero così? La differenza tra la reazione di Twitter e quella di Facebook è realmente dovuta alla libertà di espressione? Oppure al fatto che Twitter non ha nulla da perdere, mentre Facebook ha diversi progetti che dipendono (anche) dal Governo?

Gli interessi di Facebook

Pensiamo a tutto il business model presente e futuro del social network di Zuckerberg. A partire dal complesso network di annunci pubblicitari, ma anche e soprattutto l'assembramento di una potenza di fuoco in termini di social media ormai imponente. Tanto che qualcuno vorrebbe spezzare Facebook, dividendo i vari servizi – Messenger, WhatsApp, Instagram – in aziende differenti mettendo fine all'impero di Zuckerberg. Un'idea che negli ultimi anni si è fatta largo nella politica americana, che ora il social non vuole stuzzicare. Insomma, non svegliare il can che dorme, anche se ha già un occhio aperto. E poi c'è Libra, la criptovaluta di Facebook che Zuckerberg sta provando a lanciare nonostante le molte difficoltà. E che dipende anche da un fragile equilibrio legislativo che il Governo potrebbe facilmente far vacillare. La verità è questa: Facebook ha molto da perdere mettendosi di traverso contro Trump. Deve scegliere da che lato stare della storia e, almeno per il momento, la sua posizione sembra essere pericolosamente neutrale. Tanto che i dipendenti hanno già capito tutto: "La storia non ci giudicherà con gentilezza" ha scritto un lavoratore in risposta alla decisione del social.

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Giornalista dal 2002 specializzato in nuove tecnologie, intrattenimento digitale e social media, con esperienze nella cronaca, nella produzione cinematografica e nella conduzione radiofonica. Caposervizio Innovazione di Fanpage.it.
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