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Perché Death Stranding di Hideo Kojima è un gioco politico, visionario e complesso

Death Stranding non è un gioco facile. Non è facile da giocare, non è facile da criticare, non è facile da comprendere. Ma rappresenta anche l’incredibile coraggio di Kojima nel realizzare un’opera che ad oggi ha comunque il vanto di voler provare a rimescolare le carte in tavola con decisione e senza timori.
A cura di Marco Paretti
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Dopo la pubblicazione di Metal Gear Soldi V, Hideo Kojima è sparito. Tagliato fuori da Konami e costretto ad aprirsi uno studio proprietario per continuare a sviluppare videogiochi, è riapparso davanti a milioni di videogiocatori un anno dopo, durante la conferenza Sony del 2016. È spuntato da una scalinata che si illuminava ad ogni suo passo, con in sottofondo la colonna sonora di Mad Max e solo due parole per il pubblico: "Sono tornato". Da lì a pochi minuti avrebbe presentato Death Stranding, uno dei titoli più discussi e attesi dall'industria videoludica proprio in virtù del fatto che Kojima, oltre a essere diventato una vera e propria rockstar, è ormai uno dei pochi grandi creativi solitari, a capo sì di un team di sviluppo ma che pone il fardello della scintilla creativa e della visione generale di un progetto interamente sulla sua figura. È un designer simbolo di un'era che sta scomparendo anche nello stesso design, dove il "design by team" sta pian piano sostituendo le singole figure che negli ultimi decenni hanno dato forma fisica alla visione di un'azienda. Proprio per questo fino ad oggi l'importanza di Kojima non era mai stata messa in dubbio; d'altronde la sua creatura, la serie Metal Gear, ha rappresentato uno dei punti fermi degli ultimi 20 anni di videogiochi. Ma con Death Stranding, un nuovo studio proprietario e una nuova visione, Kojima è tornato a mettersi in gioco. E a rischiare.

Death Stranding non è un gioco facile. Non è facile da giocare, non è facile da criticare, non è facile da comprendere. Le prime 15 ore le si passa a fare quello che per mesi è stato l'elemento più ironizzato dal web in seguito alla presentazione: si consegnano pacchi. Li si ritira in una città, si cammina per chilometri evitando le presenze ostili delle CA – creature semi-invisibili ma individuabili attraverso il bambino che il protagonista, Sam, si porta sul petto – e dei Muli – avversari umani – e li si consegna. Poi si ricomincia il ciclo. Le prime ore di Death Stranding sono difficili e lo saranno per tutti i videogiocatori. Il ritmo è lento, la consegna dei pacchi è resa difficile dalla necessità di gestire il carico di pacchi sia in termini di peso che di disposizione sulla schiena e sulla tuta e la mappa di gioco certo non aiuta con la massiccia presenza di colline, rocce e fiumi. Ogni elemento di Death Streanding sembra voler rendere frustrante il gioco agli utenti. E in questo ci riesce benissimo.

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Entro la decima consegna si comincia a intravedere il senso generale del gioco, quel messaggio politico che Kojima sembra aver inserito in maniera così predominante all'interno del suo ultimo lavoro: gli Stati Uniti non ci sono più, distrutti da un evento che ha unito il mondo reale con quello dei morti e che ha portato ad un allontanamento dei centri abitati degli USA – ora chiamati UCA, United Cities of America – e ad una perdita generale dei legami che univano le persone. In questo contesto i corrieri come Sam, nel gioco interpretato dall'attore Norman Reedus, sono fondamentali, perché di fatto rappresentano l'unico modo per spostare una merce da una zona all'altra degli UCA. E proprio attraverso questi spostamenti si concretizza quello che è di fatto il compito principale che guida i primi passi di Sam nella trama del gioco: non solamente trasportare merce da una città all'altra, passando per accampamenti e zone sicure, ma anche collegare tutte le UCA una alla volta, partendo dalla costa Est di quelli che un tempo erano gli States fino ad arrivare alla costa Ovest. È qui che Kojima spinge sul messaggio politico, quello che punta a costruire ponti più che muri.

Ma è anche qui che il gioco offre gli spunti più importanti di una profondità che va oltre la semplice consegna di pacchi e sfocia in una sfaccettata rappresentazione dei legami che non solo collegano le città, ma anche i personaggi – interpretati peraltro da un cast d'eccezione con nomi come Guillermo del Toro e Mads Mikkelsen – e il giocatore stesso a Sam. Un lavoro che non passa solamente per il dipanarsi lento e costante della trama, ma anche dai piccoli dettagli che permeano ogni elemento del gioco. Durante un'intervista Reedus ha raccontato che Kojima gli faceva spesso rifare davanti ad una telecamera piccoli gesti che lui compiva d'istinto, come il pulirsi la bocca dopo aver bevuto. Death Stranding è pieno di questi dettagli che se presi da soli non dicono molto, ma che sul lungo andare contribuiscono a creare una rappresentazione visiva e concreta della personalità di Sam attraverso un elemento, il visivo appunto, che il giocatore coglie anche involontariamente. Cereando un legame inevitabile con il protagonista. "Non giocheranno con un tuo manichino, saranno te" aveva spiegato Kojima a Reedus.

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Tutto questo passa però per un sontuoso lavoro di realizzazione di un videogioco che unisce questa ricerca del valore delle connessioni ad un gameplay estremamente spiazzante per chi si aspetta qualcosa di vagamente simile a Metal Gear. Poco sopra dicevamo che Death Stranding sembra fare di tutto per rendere i primi momenti frustranti e il motivo è semplice: nel gioco nulla è dato per scontato e tutto ha sempre una conseguenza. Trasportare i pacchi aumenta il peso sulle spalle di Sam e lo porta a sbilanciarsi durante la camminata, costringendo il giocatore a premere a ritmo L2 e R2 per mantenersi in piedi ed evitare di cadere, eventualità che porterebbe ad un possibile danneggiamento della merce. Una volta che Sam avrà accesso ai mezzi di trasporto – che siano le moto o l'esoscheletro – dovrete invece stare attenti alla batteria, che si scaricherà. Per poterla ricaricare in viaggio dovrete portarvi dietro uno speciale oggetto che consente di costruire varie strutture, tra cui un generatore in grado di ricaricare i veicoli. Ma anche in questo caso l'oggetto graverà sulle spalle di Sam e potrà essere utilizzato una sola volta. È un circolo vizioso che da un lato costringe i giocatori a pianificare gli spostamenti in maniera minuziosa e dall'altro incatena il ritmo ad una lentezza riflessiva che qualcuno potrebbe trovare pesante. E stiamo parlando solamente delle prime zone relativamente pianeggianti.

In questo Death Stranding è chiaramente coraggioso, perché Kojima realizza una visione per certi aspetti molto lontana dall'idea di videogioco a cui siamo abituati oggi, ma proprio per questo dal deflagrante potere rivoluzionario che semplicemente va compreso nella sua totalità. Il problema? Questo approccio lo rende un gioco, appunto, difficile da capire e fare proprio, che solamente dopo ore e ore di gioco instilla nei giocatori che gli hanno dato fiducia la scintilla che li farà tornare nuovamente ad attraversare le pianure e le montagne attorno alle UCA. Ma Death Stranding non è Metal Gear Solid e qualcuno si fermerà alle apparenze. Elemento che comunque non incide sull'incredibile coraggio di Kojima e sulla realizzazione finale di un'opera che ad oggi ha comunque il vanto di voler provare a rimescolare le carte in tavola con decisione e senza timori. Il risultato potrà piacere o no, ma sicuramente si merita attenzione.

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Giornalista dal 2002 specializzato in nuove tecnologie, intrattenimento digitale e social media, con esperienze nella cronaca, nella produzione cinematografica e nella conduzione radiofonica. Caposervizio Innovazione di Fanpage.it.
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