Obsolescenza programmata. Un termine che negli ultimi anni è diventato sinonimo di misteriose pratiche contro i consumatori e i loro smartphone, "uccisi" volontariamente e prematuramente dalle aziende per spingere i proprietari ad acquistare un nuovo modello. Un approccio diverse volte affibbiato ad Apple più che a tutte le altre case produttrici di smartphone. D'altronde è comprensibile: l'azienda di Cupertino lancia prodotti facenti parte di quella fascia di prezzo che non ammette errori né intoppi, dispositivi che gravitano intorno ai 1.000 euro e che quindi, nella mente dei consumatori, devono essere quasi eterni. Perché se da un lato agli smartphone della concorrenza è concesso qualche inciampo, a quelli di Apple è chiesta la perfezione. E da un certo punto di vista questo è corretto, ma quando si parla di obsolescenza programmata bisogna fare un passo indietro.
Prima di tutto: cos'è l'obsolescenza programmata? La spiegazione più semplice è che rappresenta quel processo tramite il quale un'azienda riduce deliberatamente la durata di vita di un prodotto per aumentarne il tasso di sostituzione, cioè spingere gli utenti ad acquistare un nuovo modello dopo un periodo di tempo prefissato. Nella sostanza significa produrre dei dispositivi che hanno già una "data di scadenza" e che dopo un numero definito di anni cominciano a cedere e a non funzionare correttamente. Arrivare a questo obiettivo è semplice: si utilizzano materiali di scarsa qualità, per esempio, oppure si definiscono prezzi di riparazione superiori a quelli di sostituzione, in modo che il consumatore, dovendo decidere tra la riparazione o la sostituzione totale, si senta spinto verso la seconda opzione per una questione di "convenienza". Anche se in realtà è tutto programmato.
Di obsolescenza programmata se ne parla dal 1932, quando il mediatore immobiliare Bernard London, all'interno del saggio intitolato Ending the Depression Through Planned Obsolescence, fece una proposta: approvare una legge che imponesse una scadenza per i prodotti con l'obiettivo di stimolare i consumi e accelerare l'uscita degli Stati Uniti dalla Grande Depressione. In realtà il fenomeno risale a poco prima, soprattutto agli inizi del XX secolo, quando è nato il caso della lobby delle lampadine. In breve, nel 1924 un gruppo di aziende ha firmato una convenzione che, tra le altre cose, imponeva ai membri di vendere lampadine che avessero una durata massima di mille ore. Da qui è nato un concetto che, nell'epoca degli smartphone, è tornato alla ribalta con questa accezione negativa, cioè quella di spingere i consumatori a dover cambiare il proprio dispositivo dopo un periodo di tempo imposto subdolamente dalle aziende. In Francia è illegale dal 2015 e le aziende che intraprendono questa strada rischiano una multa di 300.000 euro più una contravvenzione pari al 5 percento del fatturato dell'azienda. Nei casi più gravi si può arrivare a fino a due anni di reclusione. Per il momento le indagini francesi hanno gravitato attorno alle stampanti prodotte da Epson, Brother, Canon e HP. La questione è particolarmente importante anche per un discorso ecologico: più prodotti vengono buttati anzitempo, più rifiuti tecnologici ci ritroviamo a dover gestire.s
Si torna così al 2017 e all'annuncio che ha fatto esplodere nuovamente la questione dell'obsolescenza programmata: Apple rallenta gli iPhone dopo un determinato periodo di tempo. Lo ha ammesso la stessa azienda, che per cercare di frenare le polemiche ha prima chiesto scusa e poi annunciato uno sconto per la sostituzione della batteria, che fino a dicembre 2018 costerà 29 euro. L'elemento importante, però, è il motivo che ha spinto Apple ad attuare questa pratica: il naturale deterioramento della batteria. Ora, chiariamo subito questo aspetto: la batteria dei nostri smartphone – e di tutti i dispositivi in generale – è l'elemento più problematico di tutti. La sua efficienza è breve, la carica dura poco e può persino esplodere. Eppure la tecnologia è ferma da anni e bisogna tenersela per buona, con tutti i difetti che si porta dietro.
"Però le batterie sono le stesse in tutti gli smartphone, perché le altre aziende non rallentano i propri prodotti?". È una domanda lecita, anche perché le altre produttrici di smartphone si sono affrettate a dire che no, loro non rallentano un bel niente. Ecco, al netto delle "fazioni" che inevitabilmente si sono create negli anni, la risposta è relativamente semplice: i dispositivi Android e quelli Apple sono profondamente diversi tra loro. Ed è proprio questa differenza a generare il problema di fondo. Prendiamo come esempio due degli ultimi dispositivi concorrenti usciti sul mercato: da un lato il Galaxy S8 e dall'altro l'iPhone 8. Il dispositivo di Samsung è un piccolo gioiello, sia di caratteristiche che di design, ma oggi gli acquirenti del primo giorno hanno già cominciato a sentire i segni del tempo: il sistema non è più scattante come i primi giorni, i lag sono frequenti e in generale è tutto meno reattivo. Anche qui non si tratta di obsolescenza programmata, ma solo di un naturale decadimento del prodotto in sé, che nel caso dei dispositivi Android è composto da hardware e software che provengono da aziende diverse e vengono ottimizzati quanto più possibile per lavorare tra loro. È lo stesso discorso dei computer Windows che generalmente si rallentano più rapidamente negli anni. Nel caso di Apple, invece, la questione è più complessa.
Vi siete mai chiesti perché sulla carta i dispositivi Android sono (quasi) sempre più potenti degli iPhone, ma poi le situazioni come quella del Galaxy S8 si presentano più velocemente? La risposta è da ricercare proprio nel tanto criticato sistema chiuso di Apple: i prodotti della mela sono sistemi realizzati da un'unica realtà che gestisce software e hardware e che in questo modo è in grado di generare un equilibrio perfetto tra sistema operativo, processore, batteria e componenti vari. Il risultato è un gioiello tecnico dal prezzo esorbitante, ma che non ha pari dal punto di vista dell'integrazione. Non è un caso che Google abbia lanciato i "suoi" smartphone Pixel e che questi rappresentino ad oggi i migliori dispositivi Android in circolazione: il concetto di sistema chiuso alla base è esattamente lo stesso. Il problema è che proprio questo punto forte rappresenta anche il tallone d'Achille degli iPhone.
Raggiungere un livello di equilibrio di questo tipo richiede che tutti gli elementi dello smartphone funzionino sempre di pari passo: il processore, per lavorare al 100 percento, richiede che anche circuiti, chip e, appunto, la batteria, funzionino a pieno regime. Il punto è che la batteria, come dicevamo prima, non può farlo per sempre. Ad un certo punto della sua vita, peraltro molto prima degli altri elementi, comincia a cedere e a perdere potenza. La carica totale diminuisce, gli sbalzi di corrente aumentano e il deterioramento avanza nel giro di pochi anni. A questo punto il sistema comincia ad avere seri problemi: il processore, programmato da Apple per raggiungere un'efficienza estrema, richiede picchi di energia che la batteria non riesce più a fornire. Così, per evitare problemi, il processore deve diminuire le sue performance. Ora vi chiederete perché proprio nel 2017. Il motivo è semplice: perché i consumatori si lamentavano dei problemi che caratterizzavano i loro iPhone.
Avete presente tutte quelle lamentele sugli iPhone che, sotto ad una certa percentuale di batteria, si spegnevano? Oppure le notizie di riavii improvvisi dei dispositivi? Ecco, la spiegazione è sempre quella: ad un certo punto il sistema comincia a pretendere alla batteria delle prestazioni che questa non è più in grado di fornire, portando a riavvii e spegnimenti improvvisi. Una situazione che chiaramente non giova né ad Apple né ai consumatori. Da qui la scelta di approcciarsi al problema come poi ha fatto l'azienda di Cupertino: dopo tot anni, quando la batteria comincia a degradarsi, il processore viene "rallentato" in modo da metterlo sullo stesso livello della batteria ed evitare richieste eccessive. Questo si tramuta in un leggero rallentamento del sistema – percettibile, ma difficilmente dagli utenti meno smanettoni – che però ha l'effetto opposto dell'obsolescenza programmata: l'obiettivo è quello di far durare di più i dispositivi, non spingere gli utenti a cambiare il telefono. Per quello sarebbe bastato non fare nulla e far continuare i problemi che, dopo qualche anno, portavano a spegnimenti improvvisi e riavvii. Perché quelle sì che sono situazioni dove il cambio del telefono diventa necessario.
E gli Android? Parliamoci chiaro: gli Android si rallentano già da soli, senza necessità di intervento da parte delle aziende. Lo fanno a causa del deterioramento della batteria e del sistema in generale, ma anche per via degli aggiornamenti del sistema operativo che diventa ogni anno più esigente in termini di performance e che inevitabilmente si "perde" i vecchi modelli in un settore così frammentato. Poi, certo, si possono trovare i veri elementi da criticare nella mela, come il fatto che per scusarsi della problematica il prezzo della sostituzione della batteria è sceso da 89 a 29 euro. Perché ovviamente, una volta sostituita, il sistema torna alla sua normale efficienza. Però, pur riconoscendo nella batteria il problema principale, l'azienda di Cupertino non ha mai reso semplice né economico il suo ricambio. Se non dopo essere stata colpita da un mare di proteste. Però bisogna essere obiettivi: in questo caso quella di Apple non è obsolescenza programmata, ma solo l'ennesima dimostrazione di come un'azienda di questo tipo non possa essere poco trasparente verso i suoi utenti. In questo caso sarebbe bastata una spiegazione preventiva.