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Call of Duty: Vanguard, la Storia vera è un’altra cosa

Un’analisi della Storia rappresentata in Call of Duty: Vanguard, nuovo capitolo della serie sparatutto di Activision ambientato durante la Seconda Guerra mondiale.
A cura di Lorena Rao
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Arthur Kingsley, Polina Petrova, Lucas Riggs e Wade Jackson sono i super soldati che compongono la squadra speciale di Call of Duty: Vanguard, l’ultimo capitolo della serie di Activision uscito lo scorso 5 novembre su PS4, PS5, Xbox One, Xbox Series X|S e PC. Super perché rappresentano il meglio delle forze alleate in lotta contro il nazismo e il fascismo giapponese. Del fascismo italiano, invece, non vi è alcuna traccia, nemmeno quando uno dei capitoli della campagna single-player ha come teatro la battaglia di El Alamein nel 1942. Per un titolo che si propone di dare una dimensione planetaria alla Seconda Guerra mondiale, deviando dalla visione tradizionale di Call of Duty: World War II, resta l’amaro in bocca. Perché prima del lancio, Call of Duty: Vanguard dava l’idea di poter dire qualcosa di nuovo sul fronte della narrazione storica.

Eppure, nonostante l’ispirazione a soldati realmente esistiti e la presenza di quattro fronti di guerra (Occidentale, Orientale, Africano e Pacifico), il titolo di Sledgehammer Games si butta più sulla fantastoria che sulla storia vera e propria. Cosa che la serie ha sempre fatto, sia chiaro, tuttavia, come detto in precedenza, l’ultimo capitolo dava il sentore di poter raccontare la sempre presente Seconda Guerra mondiale in maniera diversa, più sensibile nei confronti della realtà storica. Ma andiamo per ordine.

In circa 5-6 ore di campagna, Call of Duty: Vanguard racconta della squadra speciale comandata dal sergente britannico Arthur Kingsley, impegnata a porre fine al Progetto Phoenix, di matrice nazista. Ed è proprio Kingsley a fare da voce narrante tra le diverse missioni su cui si regge la trama. Un flusso che inizia in media res, su un treno in corsa controllato dai tedeschi, per poi essere intervallato da missioni-flashback, ciascuna dedicata ad ogni protagonista durante le battaglie più iconiche della Seconda Guerra mondiale.

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Riguardo la resa di armi e ambientazioni, Call of Duty: Vanguard fa un lavoro sopraffino, da tutti i punti di vista, conferendo enorme realismo e senso di immersione in un contesto che vuole richiamare il passato, ma solo all’apparenza. Tale apparenza la si percepisce nonostante i tentativi di trattare specifici frammenti della Seconda Guerra mondiale: la storia di Polina Petrova riflette il ruolo che le donne sovietiche hanno avuto durante assedio nazista di Stalingrado, mentre nella missione dedicata allo statunitense Wade Jackson, così come in quella dell’australiano Lucas Riggs, emerge il tema del razzismo negli eserciti. Nel caso di quello statunitense, la segregazione razziale finì con l’Executive Order 9981 di Truman nel 1948, applicato concretamente solo con la Guerra in Corea del 1950; nell'esercito inglese dominava invece un profondo disprezzo e senso di superiorità nei confronti di soldati provenienti dalle colonie del Commonweatlh, tra cui gli australiani.

A stufare davvero di Call of Duty: Vanguard è però la solita retorica con cui viene riproposta la Seconda Guerra mondiale, che riprende dal cinema hollywoodiano una prospettiva dualistica in cui a combattere sono buoni contro cattivi. Se tra i primi gli americani sono onnipresenti, i secondi confluiscono sempre in un male supremo che prende la forma di Hitler e il nazismo. Una visione ridondante, limitata, semplicistica che ha ormai tramutato il nazista nel classico villain della cultura pop, al pari dello zombi. Un’analogia particolare sottolineata dagli studiosi di game studies A. J. Salvati e J. M. Bulinger.

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Ora, non ci si aspetta mica di imparare la storia da Call of Duty: Vanguard, ma non si intravede nemmeno un cambiamento sul fronte della narrazione storica nonostante il tentativo di adottare punti di vista differenti grazie alla presenza di quattro protagonisti provenienti da culture e paesi diversi. La singola caratterizzazione di Arthur, Polina, Lucas e Wade è evidente solo nell’approccio al combattimento e nelle abilità speciali. Per il resto, ognuno è espressione del super soldato prima menzionato, sempre con la battuta pronta anche quando la morte sembra vicina.

Forse questa critica alla campagna di Call of Duty: Vanguard è troppo dura, considerando che il fulcro del gioco – e dell’intera serie – è il multiplayer online, soprattutto dopo l’avvento di Call of Duty: Warzone, che catalizza l’attenzione del pubblico di massa. Resta comunque un forte rammarico nel vedere, nel 2021, una campagna single-player dedicata alla Seconda Guerra mondiale non sfruttata appieno sul versante rappresentazione, quasi tranciata nelle sue parti più importanti, per dare spazio a una visione banale, fatta di cutscene spettacolari e di combattimenti contro avversari spietati e meritevoli di atroci vendette, che però trasmette poco o nulla di ciò che fu il conflitto più atroce della contemporaneità.

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